Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, un libro di Piero Ignazi

Piero Ignazi ha messo in un linguaggio accessibile a tutti i risultati di più di vent’anni di studi sui partiti politici. Il libro che ha scritto (Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Laterza, Bari, 2012: vedi) prova a rispondere alla domanda “perché i partiti hanno così cattiva fama?”. Guardando alle loro vicende retrospettivamente, a quanto avvenuto nel corso del XX secolo, egli coglie un elemento di paradosso: dopo aver impiegato decenni e decenni per essere riconosciuti una parte indispensabile dei sistemi politici moderni, anzi delle moderne democrazie (tutti oggi si affrettano a riconoscere che non è possibile avere una democrazia senza partiti, ma certo anche una democrazia con questi partiti è cosa assai improbabile!),  oggi i partiti soffrono di una fortissima crisi di legittimità. Specie in Italia. Come testimoniato dai bassissimi livelli di fiducia che essi riscuotono e dalla costante perdita di iscritti, militanti, elettori. E’ importante seguire le argomentazioni di Ignazi perché mettono in luce le tribolazioni dei partiti, al di là degli scandali ricorrenti che pure caratterizzano l’esperienza italiana. Io lo farò anche con un occhio particolare verso il PD (ed anche verso vicende locali), non solo perché mi colloco “a sinistra”, ma anche perché ritengo conclusa, per fortuna, la vicenda del “partito padronale” del centrodestra.

Parco di sculture di Ca’ La Ghironda – Ponte Ronca di Zola Predosa (foto del 7 ottobre 2012)

[1] Cosa è successo? Perché questa parabola? Ignazi la spiega con l’affermarsi del cosiddetto cartel party (la terminologia è stata proposta da due politologi: Richard Katz e Peter Mair). Il venire meno del collante ideologico e delle grandi visioni del mondo; l’innalzamento del livello di istruzione degli elettori; la comunicazione televisiva – questi ed altri fattori hanno contribuito a ridurre il numero degli iscritti e dei militanti. I partiti sono risultati sempre più dominati dagli eletti, ovvero da chi ricopre cariche istituzionali. Essi, inoltre, hanno usato il potere conseguito tramite le istituzioni per “sfruttare” sempre di più le risorse dello stato. “Da ponti tra società e Stato i partiti sono «entrati» sempre più dentro lo Stato, diventandone quasi delle agenzie. I partiti si sono incistati nello Stato, sono diventati «Stato-centrici». Fanno parte dello Stato, lo usano e lo sfruttano. Per vivere e prosperare” (p.51). Per seguire questo “percorso” conviene esaminare quello che avviene in tre distinti ambiti: (a) il partito nel territorio; (b) il partito nelle strutture centrali; (c) il partito nelle assemblee elettive. Ignazi illustra chiaramente come le trasformazioni intervenute in questi tre ambiti abbiano cambiato il profilo dei partiti: la contrazione del partito nel territorio è stata “controbilanciata” (sic) dalla crescita del partito al centro (sia negli apparati centrali che nelle rappresentanze elettive). E ciò ha prodotto una perdita di capacità di ascolto della società, ma anche una perdita di capacità di “elaborazione” (vedi).

  1. Nel territorio si registra sia una forte diminuzione del numero degli iscritti, sia una diminuzione della presenza fisica, es. tramite unità di base e sedi. Il PCI aveva 1.421.230 iscritti nel 1989; il PDS ne ha 989.708 nel 1991; il PD ne ha 820.607 nel 2009, poi scesi a 617.234 nel 2010 e 589.987 nel 2011. La diminuzione degli iscritti ha diverse ragioni. Tra queste, però, c’è anche un gap crescente tra le aspettative di “efficacia” della partecipazione e la realtà. Molti momenti di partecipazione sono organizzati in modo ritualistico. Le decisioni vere sono sottratte alla discussione di tutto il partito e vengono prese in ambito ristretto. Spesso i processi decisionali sono di tipo top-down piuttosto che bottom-up. Questi ed altri “disincentivi” alla partecipazione si sperimentano anche a livello locale. Perché dunque spendere tempo ed energie per partecipare? E’ per ribaltare questa deriva che il PD ha introdotto le primarie per la scelta dei candidati (spostando in una qualche misura potere decisionale sugli elettori), ma lo ha fatto spesso senza convinzione ed anzi dando chiaramente l’impressione di non voler realizzare alcuna “cessione di potere”. Insomma, spesso sono state interpretate come se si intendesse cooptare il vincitore pur tramite elezioni (vedi)! Lo statuto del PD prevede anche “referendum tematici”, ovvero il coinvolgimento degli elettori per decidere su politiche (anziché sulla scelta dei candidati). Ma sono rimaste lettera morta.
  2. Allo stesso tempo è cresciuta la dimensione delle risorse organizzative, umane, economiche della sede centrale del partito. Il personale impiegato nelle sedi locali è diminuito. Sono cresciuti i professionisti della politica retribuiti con le risorse dei gruppi parlamentari. I partiti sono oggi molto più ricchi rispetto al passato e gran parte di questi soldi sono gestiti dal centro. Dappertutto, osserva Ignazi, i partiti sono più forti di un tempo, se si guarda alle “risorse” di cui dispongono. Nel bilancio d’esercizio del PD per l’anno 2011 le entrate ammontano a 63,5 milioni di euro, di cui 57,9 per “rimborsi elettorali” (soldi dello stato) e 5,1 di “contributi provenienti dai parlamentari” (in fondo sono anche questi soldi dello stato) (vedi). La maggior parte del finanziamento deriva dunque dallo stato, non dai sostenitori. Il bilancio del PD non contabilizza le quote di iscrizione che sono lasciate alle unità territoriali, ma se ipotizziamo un valore medio di 20 euro per iscritto si può stimare in almeno 12 milioni di euro questa parte di finanziamento – circa 1/5 del finanziamento statale! (Nel 2012 la legge sul finanziamento ai partiti è stata modificata, dimezzando i contributi elettorali e legando una parte del finanziamento alle quote versate ai partiti dai cittadini – ma siamo ancora lontani da una soluzione convincente: vedi). Crescono le risorse gestite dal centro e cresce anche l’accentramento delle funzioni di decisione, di indirizzo politico. Organismi di ampie dimensioni, come l’Assemblea Nazionale, facilitano decisioni prese da gruppi ristretti (e peraltro raramente assumono decisioni nette, come testimoniato anche dagli ultimi incontri tenuti). Il potere di nomina e di carriera politica, inoltre, viene a dipendere dal legame con il “capo-corrente” (istruttivo è quanto avvenuto dopo le “primarie” del PD del 2007 e del 2009), per cui viene premiata più la “fedeltà” che il “merito” (e si vede). Anche qui un “meccanismo” top-down anziché bottom-up.
  3. L’occupazione degli organi di partito da parte dei parlamentari (e degli altri eletti) è ormai la norma – così afferma Ignazi. Insomma, il partito è controllato dagli “eletti”, ovvero da un ristretto gruppo. Spesso il gruppo degli “eletti” (coloro che ricoprono cariche istituzionali) detengono anche più risorse: lo staff dei parlamentari è assai spesso più consistente dello staff del partito (così è anche per il PD, cfr. p.91). Gli “eletti” detengono anche un potere di nomina in enti e società controllate che esercitano spesso nelle forme di “patronage”, secondo la terminologia di Ignazi, ovvero con nomina discrezionale su basi di fedeltà al partito o al singolo politico (per un episodio locale si veda la vicenda della nomina di Giuseppe Novembre, coordinatore dei Giovani Democratici, nel cda dell’ASP G.Gasparini: vedi; oppure la vicenda delle nomine alla Fondazione di Vignola: vedi).

Parco di sculture di Ca’ La Ghironda – Ponte Ronca di Zola Predosa (foto del 7 ottobre 2012)

[2] Insomma, i partiti risultano essere più forti in termini di risorse, ma sempre meno capaci di svolgere le funzioni per cui sono sorti: ascolto, individuazione, selezione dei bisogni; elaborazione di politiche risolutive. Queste funzioni sono rinsecchite. Rimane quella di mobilitazione elettorale. Anche se guardiamo alla realtà locale (es. al PD vignolese) vediamo che è così. Osserva Ignazi: “Il corto circuito in cui sono intrappolati i partiti sta tutto qui: hanno guadagnato forza (tutta al centro) dilapidando al contempo risorse di inestimabile valore benché (e in quanto) immateriali: la fiducia, la stima, la legittimità. L’isterilimento affettivo del rapporto con la società mette i partiti sul banco degli accusati perché colpisce la loro autentica ragion d’essere, quella di raccogliere e articolare le domande dei cittadini e di canalizzarle verso le arene decisionali” (pp.116-117). Non ho difficoltà a riconoscere che nel panorama dei partiti italiani il PD è quello che assai meglio di altri sta provando a invertire la tendenza della chiusura autoreferenziale – ne sono una prova (certo non del tutto convincente) le primarie attualmente in corso (vedi). Ma il coinvolgimento degli elettori nella scelta del candidato alla presidenza del consiglio rappresenta comunque solo una porzione dello spettro delle decisioni da assumere. Rimane tutta la materia “programmatica” su cui manca una vera discussione – e manca pure un dispositivo, tipo “referendum” o “primarie delle idee”, di mobilitazione di iscritti e simpatizzanti.

Museo d’arte di Ca’ La Ghironda – Ponte Ronca di Zola Predosa (foto del 7 ottobre 2012)

[3] Rimane poi tutta la questione della capacità di elaborazione programmatica dei partiti, PD incluso (vedi). Iscritti ed elettori possono essere coinvolti nella scelta tra orientamenti programmatici divergenti. E possono anche essere coinvolti nella formulazione di pezzi di programma. Ma vi sono “elaborazioni” che non possono che essere svolte dagli organi di partito, meglio se con il concorso di competenze ed expertise esterne (esperti, studiosi, universitari, ecc.). E’ singolare, dal punto di vista del deficit di elaborazione programmatica, le ammissioni a posteriori sui “difetti” della riforma del titolo V della Costituzione, approvata forzosamente dal centrosinistra nel 2001 (testimoniando con ciò la debolezza politico-culturale nei confronti della Lega Nord che allora chiedeva a gran voce un “federalismo” che poi essa stessa non ha saputo impostare in modo credibile). Su Il Sole 24 ore del 28 settembre scorso è lo stesso Pierluigi Bersani che riconosce che “la riforma del Titolo V ha avuto almeno un paio di difetti” (pdf). Ma mentre onestamente riconosce gli errori compiuti allora in termini di proposta (poi divenuta nuova norma costituzionale – oggi foriera di continui conflitti tra stato e regioni portati al cospetto della Corte Costituzionale), risulta assolutamente deludente come nuova “proposta”: “La nostra proposta (…) è di mettere mano a una riforma organica dell’intero sistema (…). Stavolta però in modo effettivo ed esigibile [sic].” E poi anche: “Perciò la prossima volta, quando si rimetterà mano a tutto questo, chiameremo sì i giuristi a dare una mano, ma dovranno dire la loro anche gli esperti di ogni singola materia”. E così via. Ma questa non è la proposta di una riforma, è invece solo l’enunciazione dell’intenzione di una riforma (visto che i contenuti sono lasciati del tutto vaghi)! Da un partito finanziato con contributi statali per oltre 60 milioni di euro l’anno io mi aspetto assai di più che un’enunciazione di buoni propositi: faremo, brigheremo, lavoreremo per voi. Mi aspetterei, anzi, che questo lavoro di analisi e di individuazione della soluzione (ovviamente questo del Titolo V è solo uno dei tanti esempi che avrei potuto fare) fosse già stato fatto! Mi aspetterei, in altri termini, un partito in grado di presentare in anticipo agli elettori i disegni di legge che andrebbe ad approvare con rapidità nella misura in cui esce vittorioso dalle elezioni. Mi aspetterei documenti di analisi critica – tipo “libro bianco” – dei settori più importanti dell’intervento statale (imposizione fiscale, promozione dello sviluppo, politiche energetiche ed ambientali, scuola, ecc.) messi a disposizione dell’opinione pubblica e su cui, magari, incentivare l’attenzione di esperti e critici. E’ chiaro, invece, quanto siamo distanti da tutto ciò. E’ chiaro, cioè, che anche su questo fronte (come su quello della partecipazione di iscritti ed elettori) i partiti (anche quelli di sinistra) non sono ancora fuoriusciti dal “vicolo cieco”. E’ chiaro che l’azione di partito e le campagne elettorali vedranno ancora una prevalenza della funzione di “marketing”, rinunciando ad un vero lavoro di analisi e di argomentazione (il contrario dei riti plebiscitari ed assembleari che pure contraddistinguono in misura marcata anche i partiti di sinistra). Ma il vicolo cieco dei partiti è, purtroppo, il vicolo cieco dell’intero paese.

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