“Nessuno le vuole abolire ma per salvarle bisogna riformarle. Serve una riflessione su come funzionano”. Lo ha detto il segretario del PD Bersani alla direzione nazionale del partito di ieri, giovedì 13 gennaio. Il fatto, però, è che una “riforma” delle primarie è stata fatta pochi mesi fa (era il maggio 2010), quando, modificando le relative norme dello statuto del PD, si è deciso di privilegiare le “primarie di coalizione” rispetto alle “primarie di partito” (il comma 1 dell’art.18 ora recita: “I candidati alla carica di Sindaco, Presidente di Provincia e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione.”). Ed anche l’invito alla “riflessione” sul come funzionano arriva un po’ lungo, visto che Bersani è segretario dal 25 ottobre 2009 e, dunque, ha avuto tutto il tempo che voleva per promuovere analisi o commissionare studi sulla realtà delle primarie del PD (studi che comunque oggi ci sono indipendentemente dalla volontà di Bersani & C.; cfr. Pasquino G., Venturino F. (a cura di), Le primarie comunali in Italia, Il Mulino, Bologna, 2009: vedi).

Primarie del PD di Bologna 2010-2011: Nadia Urbinati (Columbia University) dialoga con il candidato Virginio Merola (foto del 5 gennaio 2011)
Il fatto è che le primarie hanno effettivamente introdotto una forte tensione all’interno di un partito che è tuttora caratterizzata da una cultura politica “tradizionale” (termine con cui non intendo dare un giudizio di valore, ma solo evidenziare che le primarie sono un elemento di novità non congruente con la cultura politica maggioritaria nel PD) e che comunque non ha ancora trovato una equilibrata “composizione”. Succede allora che, consapevoli del fatto che autorevoli esponenti della maggioranza del PD non vedono di buon occhio le primarie, tutta una serie di personaggi che in altra situazione non avrebbero proferito parola (non li avete sentiti, infatti, criticare le primarie nella “fase Veltroniana”), hanno iniziato a mettere sotto accusa le primarie. Evidenziando limiti e difetti di questo dispositivo di selezione dei candidati alle cariche istituzionali (per stare il più possibile vicino a noi: come dispositivo per la scelta del candidato a sindaco). Insomma, si è messa in moto da tempo una “gioiosa macchina da guerra” per ridimensionare, sterilizzare o forse demolire le primarie. Che non sono mai piaciute alla maggior parte dei dirigenti del PD, che però non ha avuto sin qui il coraggio e la forza per esprimere apertamente questa indifferenza od ostilità. Negli ultimi tempi, però, le voci contro si sono intensificate. Da tempo il “popolo delle primarie” – un soggetto poco definito ed anche sovrastimato – sa che le primarie non sono amate dai vertici del PD. Oramai il loro ridimensionamento, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, è un fatto atteso. Se non sarà oggi, sarà domani. O dopodomani. Certo, in questo modo, con questo modo di fare, il PD consuma anche un po’ del suo appeal (che non è proprio tantissimo e, soprattutto, è oramai in costante e progressivo declino da un paio d’anni). E certamente in questa “eterna” indecisione – primarie sì, forse no, ma anche … e così via – su una delle tante facce della costellazione identitaria del PD sta uno dei motivi per cui l’entusiasmo iniziale di tanti nuovi militanti, elettori, simpatizzanti si è rapidamente smorzato. Senza pretesa di esaustività vorrei provare ad articolare alcuni argomenti, visto che sin dall’inizio mi sono espresso a favore delle primarie (vedi). E che ancora oggi sono convinto dell’opportunità dello strumento.

Virgionio Merola, candidato alle primarie del PD, interpretato in chiave artistica. L'immagine è però della campagna per le primarie 2009 che vedeva Merola contrapposto a Delbono, Cevenini e Forlani
[1] Va riconosciuto che il pensiero di Bersani sulle primarie è il pensiero della maggior parte dei dirigenti PD. Davide Zoggia, esponente della segreteria nazionale e responsabile PD per gli enti locali, ha affermato che “serve un tagliando per le primarie” (la Repubblica, 4 gennaio 2011, p.11; anche lui dimentica che il tagliando alle primarie è stato fatto appena pochi mesi fa). Giorgio Merlo, esponente PD, ne ha dichiarato il fallimento, ritenendole anzi “inadatte o nocive” (Merlo G., “Troppi equivoci sulle primarie”, Europa, 7 gennaio 2011, p.1: vedi). Ma nella “discussione” (espressione impropria: l’operazione in atto è piuttosto uno “smontaggio”) sono stati di recente coinvolti anche “calibri da novanta” esterni al partito. Un intervento di Giovanni Sartori sul Corriere della Sera del 3 gennaio 2011 (vedi), ad esempio, contiene nel titolo (non sappiamo se di Sartori stesso – c’è da dubitarne) una tesi esplicita: “Le primarie fanno male al PD”. In realtà chi legge l’articolo non trova conclusioni così perentorie, ma semplicemente l’enunciazione di tre “rischi”: considerazioni che potrebbero essere usate anche per farle meglio, piuttosto che per cancellarle. A questo si è aggiunto un sondaggio con commento di Ilvo Diamanti su la Repubblica, sempre del 3 gennaio 2011 (vedi). Anche qui è il titolo quello che picchia più duro: “Dopo le primarie c’è ancora il PD?” Stefano Cappellini su Il Riformista (16 dicembre 2010: vedi) titola addirittura: “Un partito ucciso dalle primarie”. Perbacco. Trattandosi di questione di vita o di morte è bene prendere la questione sul serio. In realtà ci sono buoni argomenti per ritenere che le difficoltà del PD procedano con o senza primarie. Ma un chiarimento sul tema primarie va tentato. Specie da parte di chi vuole difenderle. Ed io, come detto, sono tra questi.

La nuova sede del Comune di Bologna in Piazza Liber Paradisus. Il progetto è stato realizzato da un'équipe guidata dall'Arch. Mario Cucinella (foto del 31 luglio 2009)
[2] Le primarie sono un mezzo per selezionare i candidati alle cariche istituzionali. Sono uno strumento. E come ogni strumento hanno particolari caratteristiche. Hanno pro e contro. Limiti e virtù. Per valutarle dovrebbero essere messe a confronto con gli altri strumenti disponibili, che poi sono uno solo: la cooptazione del candidato, ovvero la sua individuazione da parte di poche persone (di “potere”) interne al partito (a Vignola era essenzialmente il ristrettissimo gruppetto degli ex-sindaci che individuava il candidato portandolo all’attenzione del consigliere regionale o del parlamentare del territorio). Con una “spruzzata” di “partecipazione” fortemente controllata (ovvero a rischio zero o quasi), ad esempio sotto forma di consultazione dei “quadri intermedi”, dei consiglieri comunali del partito, dei militanti più attivi. Il fatto è che la scelta era ampiamente pilotata nel suo esito finale, tranne qualche caso in cui il gruppo dirigente era diviso. Comunque sia, un ragionamento serio sulle primarie dovrebbe innanzitutto partire dal tentativo di comprendere, nelle attuali situazioni del PD, quale dei due diversi strumenti – primarie competitive o cooptazione – è maggiormente efficace nel selezionare “buoni” candidati (intendendo con ciò candidati che abbiano buone chances di competere elettoralmente e buona capacità di governare). Ho l’impressione che se la questione venisse impostata in questi termini già si farebbe un passo in avanti nell’evitare una lotta l’un contro l’altro armato dei rispettivi gruppi di tifosi nei due schieramenti. Perché non c’è dubbio che le primarie hanno valore anche e soprattutto nella misura in cui sono primarie efficaci, ovvero che portano, appunto, alla selezione di un “buon” candidato. Certo, la loro efficacia non esaurisce il valore che esse hanno. Che sta anche, infatti, nello strumento in sé, ovvero nella partecipazione ampia di militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti – appunto come valore in sé. E questo poiché la mobilitazione che le primarie innescano porta un po’ di gente ad avvicinarsi alla politica (a cercare di conoscere uno o più candidati, ad ascoltare, a leggere di programmi e così via), avendo come effetto lo stabilirsi di una relazione (per quanto debole) e la circolazione di informazioni sul PD, i suoi candidati, le sue idee, il suo programma. Le primarie – anche questo è bene ricordarlo – nascono anche come antidoto alla crisi della partecipazione nei partiti “tradizionali”. Insomma, efficacia (migliore efficacia rispetto all’altro strumento disponibile: la cooptazione del candidato) e partecipazione sono i due argomenti a sostegno delle primarie.
[3] La metafora delle primarie come strumento ci indirizza a considerare due aspetti in genere trascurati. Il primo aspetto è che uno strumento ha modalità di utilizzo opportune ed altre non opportune, ovvero non coerenti con le “qualità” dello strumento o, comunque, sub-ottimali. Se le primarie sono uno strumento-cacciavite, allora è improprio usarle come se fossero uno strumento-martello. Invece nel PD troppo spesso questo è quello che avviene. Si vuole continuare a martellare anche avendo in mano un cacciavite. Fuor di metafora. Le primarie spostano una parte di potere, nella scelta dei candidati, dalle segreterie del partito (gruppi ristretti) a militanti ed elettori (gruppi allargati). Invece troppo spesso l’attuale gruppo dirigente del PD vorrebbe usare le primarie mantenendo la scelta del vincitore in mano alle segreterie del partito (in realtà, come si notava, in mano a gruppi ancora più ristretti), come avveniva prima della loro introduzione. Il “problema” delle primarie sta tutto qui. Il PD deve scegliere: o i vertici del partito rinunciano ad una parte del potere di “cooptazione” che tradizionalmente hanno esercitato ed accettano il rischio di una competizione che non può essere controllata (primarie “vere”) – in tal caso le primarie possono dispiegare i propri effetti positivi di informazione e mobilitazione – o rinunciano alle primarie. Dichiarandolo in modo esplicito. Continuare ad usare le primarie come un mezzo di cooptazione (cooptazione tramite primarie; ovvero primarie con un candidato “ufficiale” che deve vincere) non fa bene al PD. Pensiamo, per avere un esempio di “cooptazione tramite primarie”, alle primarie bolognesi del 2009, da cui è uscito vincitore Flavio Delbono. A Bologna i principali dirigenti del PD decisero di promuovere e sponsorizzare la candidatura di Delbono (sulla base del ragionamento: dopo Cofferati, meglio un ex-Margherita), mettendo in moto una “spirale di endorsements”, ovvero di dichiarazioni ufficiali di sostegno (vedi). Delbono venne dunque presentato come il candidato ufficiale del PD (vedi), mentre Virginio Merola (altro candidato PD – ed oggi di nuovo candidato alle primarie bolognesi) venne fortemente scoraggiato ed ostacolato, anche se in modo non palese. Delbono ebbe in effetti il sostegno ufficiale e fu oggetto di indicazione di voto da parte di Bersani (allora non ancora segretario), Vasco Errani (governatore dell’Emilia-Romagna), Salvatore Caronna (allora segretario regionale), Andrea De Maria (allora segretario provinciale) e di tutti i vertici del PD nazionale (ovviamente nessun dirigente del PD bolognese od emiliano si è dimesso, in segno di assunzione di responsabilità, a seguito dell’affaire Delbono e alle sue conseguenti dimissioni da sindaco – anche questo è indicativo della “cultura politica” che il PD ha ereditato dai partiti fondatori). Usare le primarie in questo modo, secondo la logica del modello cooptativo, non può che portare alla distorsione dello strumento stesso delle primarie. Alla sua inefficacia ed alla frustrazione dei partecipanti.
[4] Le considerazioni del punto 3 sviluppano il tema in negativo (ovvero: come non usare le primarie). Ma è bene sviluppare il tema anche in positivo, chiedendosi cioè come dovrebbero essere organizzate le primarie per dare ad esse il massimo di efficacia, ovvero per accrescere le chances di primarie che selezionano il “migliore” candidato. E’ il tema dell’efficacia delle primarie. Anche su questo fronte c’è margine per l’apprendimento e per fare meglio, proprio a seguito dell’esperienza sin qui fatta. Non basta, cioè, reclamare “primarie vere”. Bisogna anche che le primarie, oltre ad essere vere, producano anche un buon risultato, ovvero funzionino bene, ovvero scelgano il miglior candidato (o comunque un buon candidato). Ho già osservato in un precedente post (vedi) che per fare questo occorre che (1) ci sia un’ampia partecipazione così da (2) diluire la quota di “voti di appartenenza” (militanti ed iscritti che tendono a seguire le indicazioni dei vertici di partito), (3) includendo invece una parte consistente di “voti d’opinione” e, conseguentemente, (4) dare peso a quella parte di voti che esprime un giudizio sul candidato (piuttosto che l’appartenenza a correnti o clan). E perché ciò sia possibile occorre fornire occasioni di conoscenza ed informazioni sui candidati in modo massiccio (e su un arco di tempo non strettissimo – le primarie non si possono fare in 2-3 settimane!), così da offrire all’elettorato d’opinione la possibilità di formarsi un giudizio e di essere incisivo (banalizzando: un solo confronto pubblico tra candidati, come venne fatto a Vignola, è male; una moltiplicità di confronti pubblici tra candidati, come stanno facendo ora a Bologna, è bene). Rientra in questo fronte argomentativo anche la risposta ad una delle obiezioni avanzate da Sartori nell’articolo sul Corriere della Sera del 3 gennaio. In realtà Sartori parla di un “rischio”, dunque nulla di ineluttabile. E il rischio starebbe nel fatto che alle primarie partecipano le persone più coinvolte politicamente, dunque poco “rappresentative” dell’elettore medio, con il rischio di vedere premiati i candidati più estremi che vincerebbero così le primarie, ma sarebbero poi destinati a perdere le elezioni vere. In realtà abbiamo esempi anche del contrario, come testimoniano le primarie in Puglia nel 2010, dove Vendola ha vinto sia le primarie, sia le elezioni regionali. Ma forse ancora più illuminante, come risposta ai timori di Sartori, è il confronto tra le primarie bolognesi (vincitore Delbono) e le primarie fiorentine (vincitore Renzi), su cui si esercitano A.Seddone e M.Valbruzzi, “Le elezioni primarie fra partiti e partecipazione: analisi comparata dei casi di Bologna e Firenze”, Polis, n.2, agosto 2010, pp.195-224 (qui nella versione paper: pdf). Seddone e Valbruzzi evidenziano infatti che le primarie fiorentine – primarie “vere” – hanno avuto una maggiore capacità di mobilitazione, portando al voto anche persone tradizionalmente lontane dalla politica (ed anche dal PD). E di questa mobilitazione il candidato Renzi ha saputo giovarsi, vincendo poi anche le elezioni e divenendo sindaco di Firenze. Prendere sul serio la preoccupazione di Sartori significa, tra l’altro, allargare la base degli elettori (ad esempio aprendo le primarie non solo agli iscritti, ma anche a coloro che si dichiarano elettori del PD, come in effetti è stato previsto sin dall’inizio). Insomma, un po’ di studi sulle primarie fanno bene al PD, ma non è detto che ciò che potrà emergere non spinga a rafforzare, piuttosto che indebolire lo strumento primarie.

Bologna, la nuova sede comunale in Piazza Liber Paradisus, progettata da Mario Cucinella & c. (foto del 31 luglio 2009)
[5] Ultima considerazione riguarda il “dilemma” primarie di coalizione/primarie di partito. Che è un dilemma abbastanza fittizio e che ha la sua origine nel tentativo di ridimensionare la portata competitiva interna al PD (e perciò “eversiva”) che le primarie “di partito” porterebbero con sé. Il fatto è che le nuove norme sulle primarie nello Statuto del PD – pur frutto di un compromesso – sono state pensate per dare priorità alle primarie di coalizione rispetto a cui il PD dovrebbe presentarsi, preferibilmente, con un candidato solo. Solo che non sempre le cose vanno bene per il PD, come ha dimostrato prima il caso della Puglia (con Vendola che si impone al candidato “ufficiale” del PD Boccia), poi il caso di Milano (con Pisapia, appoggiato da Vendola, che si impone sul candidato “ufficiale” del PD Boeri). Sono bastati pochi casi, tra l’altro frutto di una gestione maldestra (per la Puglia la cosa è evidentissima), per offrire ai “guastatori” delle primarie la possibilità di farsi avanti e chiederne con forza la revisione o il “tagliando”. Il fatto è che il PD in questi casi ha voluto a tutti i costi promuovere “primarie di coalizione” (con l’illusione di arrivarvi con un unico candidato PD e quindi di vincerle) senza prima fare alcun accordo sulla coalizione (o con la coalizione, per definirne i confini). E’ quanto rileva Michele Salvati, lucido come al solito, su Il Riformista del 9 dicembre 2010 (vedi), osservando: “raramente ho visto un pasticcio maggiore”. Insomma, di nuovo, spunti interessanti sulle primarie vengono offerti oramai da tempo ed il PD, solo che lo voglia, ha tutto ciò che occorre per apprendere a fare le primarie come si deve. Dunque anche per “aggiornare” od “aggiustare” le primarie. A patto che sia detto con chiarezza l’obiettivo che intende perseguire. La formula “aggiornare le primarie per salvarle” è troppo vaga. E con la credibilità che ha oggi il PD ed il suo gruppo dirigente non può che alimentare sospetti. Meglio parlare chiaramente. Personalmente rimango convinto che primarie “fatte bene” (ovviamente quando c’è più di un candidato – non è detto che debba sempre essere così!) oggi offrono chances maggiori di fare una scelta “di qualità” rispetto alle scelte di candidati affidati alla segreteria del partito (od a gruppi più ristretti, come di norma avveniva). Però, come spero di aver testimoniato con il mio sforzo argomentativo, sono disposto a confrontarmi con altre ragioni.
PS. Nella sintesi dell’intervento di Bersani alla direzione nazionale del PD del 13 gennaio, al punto 9 sta scritto: “Sulle primarie, quelle che ci sono si fanno. Nella conferenza sul partito [da tenersi nel 2011] discuteremo anche di questo. Non capisco gli appelli che ricevo a non cancellare le primarie. Non ho mai pensato una cosa del genere. L’idea è di riformarle per preservarle. Lo strumento ha mostrato una sua vitalità ma anche prodotto alcuni problemi, per esempio l’inibizione all’allargamento della coalizione o al coinvolgimento di personalità della società civile. E’ un tema che va affrontato senza sollevare bandiere e senza spirito di tifoseria. Nessuno vuole cancellare le primarie.” Vedremo. Sino ad ora la questione della “riforma” delle primarie è stata gestita maldestramente. Diciamo così. Ribadisco che occorre innanzitutto rendere espliciti gli obiettivi che il PD vuole darsi in merito alla scelta dei candidati. E osservo, anche, che già oggi le norme statutarie offrono la possibilità di optare per altre modalità, proprio nell’intento di accogliere le diverse “sensibilità” della coalizione: (art.18, comma 4): “Qualora non si svolgano primarie di coalizione, si procede con le primarie di partito, a meno che la decisione di utilizzare un diverso metodo, concordato con la coalizione, per la scelta del candidato comune non sia approvata con il voto favorevole dei tre quinti dei componenti dell’Assemblea del livello territoriale corrispondente.” Insomma, sino ad ora il PD si è mosso male su questo tema. Saprà fare meglio nel 2011?
Dopo l’esito delle primarie di Bologna (positivo anche per la buona partecipazione: circa 28.400, più che nel 2009), di Napoli (inquietante), e di Cagliari (con vittoria del candidato di SEL, segno evidente dello scarso appeal del candidato PD), si è riaccesa la disputa sulle primarie. Una disputa in cui spesso gli intervenuti, tra questi Massimo D’Alema, hanno detto ciò che risultava per loro conveniente, piuttosto che guardare alla realtà. Sulla vicenda è intervenuto anche Salvatore Vassallo, con un’intervista rilasciata a La Stampa:
http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=WYTOZ
Ma è soprattutto sul “caso Napoli” che Vassallo è intervenuto nella sua newsletter digitale, osservando che quanto successo a Napoli “è più complicato e preoccupante di quanto sembrasse all’indomani del voto.” Inoltre, in risposta proprio a D’Alema che aveva subito osservato che le primarie di Napoli testimoniavano quanto male esse sono state congegnate dal PD (dicendo in sostanza che l’episodio napoletano era originato da primarie aperte agli elettori e che invece il problema si sarebbe evitato se il PD avesse deciso di chiamare a votare SOLO gli iscritti), Vassallo ricorda “che nel luglio del 2009 a Napoli erano state “comprate” il 10% di tutte le tessere distribuite dal PD al livello nazionale.”
Vedi:
http://archiviostorico.corriere.it/2009/luglio/11/Napoli_una_tessera_tensione_nel_co_8_090711041.shtml
Continua Vassallo: “Non è detto dunque che, fino a quando il contesto non cambia, il “partito strutturato degli iscritti” farebbe meglio del “partito liquido delle primarie”. Piuttosto che abolire il termometro, sarebbe meglio intervenire sulle malattie che dobbiamo curare.”
Vorrei ringraziare pubblicamente Salvatore Vassallo per il contributo che ha dato e che sta dando nel tentativo (disperato?) di fare davvero del PD un partito nuovo. Ed anche perché dimostra di non avere, nel dibattito, quell’approccio strumentale che invece è un elemento di continuità di tutti i partiti italiani e che Massimo D’Alema incarna con la massima perfezione.
Un contributo di ironia sulla disputa-primarie:
E’ un pezzo da conservare in archivio. Con D’Alema che ci racconta la storia di come gli americani vedono le primarie del PD! Troppo bello!!
Il 27 febbraio si sono tenute le primarie a Torino per la scelta del candidato a sindaco del PD. Ha vinto Piero Fassino con il 55% dei voti, mentre al secondo posto è arrivato il principale sfidante, Davide Gariglio, al 27%. Ma il dato che più ha colpito gli osservatori è stato quello dell’alta affluenza: 53.185 votanti. Un numero significativamente più alto dei partecipanti alle “primarie” per la scelta del segretario PD del 2007 e del 2009 (39.000 circa). A Torino il PD conta meno di 5.000 iscritti. Con le primarie sono stati mobilitati cittadini in rapporto di 10 a 1 rispetto agli iscritti. Questo è il senso delle primarie: mobilitazione e partecipazione. E la partecipazione è indubbiamente proporzionale al fatto che siano “primarie vere”. Sul fatto che debbano anche essere “efficaci” mi sono già espresso. Torino, dopo Bologna, testimonia che le primarie, ben organizzate e ben giocate, sono un importante dispositivo di mobilitazione e informazione e possono dunque aiutare il candidato vincente a vincere anche la competizione elettorale. Nonostante il successo delle primarie torinesi Giorgio Merlo, esponente del PD di torino (ex-DC) e parlamentare, non ha rinunciato a criticare le primarie. Ovviamente, per rendersi il compito più facile, si è costruito un proprio bersaglio: “lo slogan ‘comunque vada è un successo’ non può essere applicato meccanicamente alle primarie. E’ indubbio, infatti, che vanno riviste.” Così su Europa del 3 marzo 2011, p.6:
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=XWMEX
Con linguaggio da fondamentalista lancia la sua requisitoria contro le primarie (che non debbono essere “una fatwa intoccabile”, ma piuttosto devono diventare “uno strumento che va usato con discrezione ed intelligenza”), formulando infine un’unica proposta di aggiornamento: “Il meccanismo che tutti possono votare a prescindere dalla propria appartenenza politica andrà rivisto.” Ora è evidente, proprio dai dati torinesi, che la stragrande maggioranza dei votanti alle primarie torinesi non erano “appartenenti al PD” – una formula usata per riferirsi che non avevano in tasca la tessera del PD. Anche Massimo D’Alema si è espresso nello stesso senso, volendo limitare – questa volta l’esternazione è venuta dopo le primarie di Napoli – la partecipazione alle primarie agli iscritti. Nel PD queste oggi sono le posizioni in campo: primarie a larga partecipazione (più difficilmente controllabili dal nucleo dei dirigenti di partito) o primarie a partecipazione “ristretta” (limitate agli iscritti).