Un fotografo vignolese in mostra al Museum of Modern Art (MoMA) di New York? Chi potrebbe mai essere? Scartate i nomi più noti che vi vengono in mente. Se si dovesse realizzare questo improbabile evento si tratterebbe di un nome sconosciuto ai più, anzi praticamente a tutti. Eppure a questo tenace e regolare fotografo – un fotografo amatoriale o, meglio, un fotografo da vacanze – è appena stato dedicato un libro che entrerà presto nei circuiti internazionali della fotografia d’élite. Gli autori del libro sono Erik Kessels (classe 1966), olandese, fotografo, pubblicitario e curatore d’arte (vedi) e Sergio Smerieri (classe 1958), fotografo e artista vignolese (vedi). Il libro – In almost every pictures n.17 – presenta una selezione delle foto scattate nell’arco di una vita dal vignolese Carlo Gubertini (1930-2019). Non un fotografo professionista, dicevamo. E non certo foto scattate con intento artistico, anche se in quegli scatti una chiara intenzionalità programmatica è evidente. Ecco il primo paradosso: trent’anni fa quelle foto non sarebbero mai state oggetto di una pubblicazione per professionisti della fotografia, per esteti e teorici dell’immagine. Sarebbero solo state mostrate agli amici nel corso di una serata conviviale. Oggi si trovano in un volume, edito da KesselsKramer Publishing, Amsterdam, 2021, che andrà a popolare la sezione di fotografia delle più importanti biblioteche ed istituzioni d’arte e fotografia a livello internazionale. Come è potuto accadere?

Copertina del libro di Erik Kessels e Sergio Smerieri, In almost every pictures n.17, KesselsKramer Publishing. Amsterdam, 2021
[1] Quanti miliardi di foto sono state scattate da quando, quasi 200 anni fa, è stata realizzata la prima immagine fotografica? Se ci si pone questo interrogativo si potrebbe giungere alla conclusione che “tutte le grandi fotografie sono già state scattate”, come ha affermato Kessels qualche anno fa nel corso di un’intervista (vedi). Cosa può dunque fare il fotografo-artista? Riporre la sua macchina fotografica nell’armadio ed affidarsi al lavoro fotografico svolto, giorno dopo giorno, in volumi sempre maggiori, dal resto del mondo. Là fuori, infatti, c’è un enorme dispositivo fatto da qualche miliardo di persone che, con macchine fotografiche (sempre meno) e smartphone (sempre più), produce immagini, riproducibili e diffondibili, di qualsiasi cosa: volti, oggetti artificiali, elementi naturali; paesaggi, macchie, linee, immagini astratte; cibi, abbigliamento, sesso, arte – e così via. A ben pensarci, per scattare foto, non serve neppure più un essere umano che inquadri e prema un pulsante. In molti casi, infatti, il processo è automatizzato; la produzione di sequenze di immagini, da cui prendere un fotogramma, avviene in automatico – Sergio Smerieri, proprio durante il lockdown 2020, ha realizzato un album fotografico selezionando immagini del paesaggio stradale vignolese (con molti cittadini riconoscibili nonostante la pixellatura dei volti) scattate dai dispositivi mobili di Google Street View (Sergio Smerieri, Vignola altrove, 2020). L’arte della fotografia può dunque rinunciare allo scattare foto, limitandosi a selezionarle tra quelle prodotte dalla gente comune, anzi da un mega-dispositivo uomo-macchina. Certo, non è questa l’unica “strada” della fotografia, altre rimangono in campo. Ma negli ultimi anni questa ha visto crescere il numero di artisti e professionisti che la imboccano. Vediamo gli ingredienti di questa operazione.

La tipica coppia di immagini dall’archivio fotografico Gubertini (dal libro di Kessels e Smerieri, 2021)
[2] Racconta Smerieri: “Carlo Gubertini era un mio vicino di casa ed un cliente del mio studio fotografico. Lo vedevo tutti i giorni ed eravamo amici. Quando viaggiava veniva da me a prendere le pellicole fotografiche e poi a farle sviluppare. Conoscevo quindi tutta la sua produzione fotografica. Dopo che lui e la moglie sono morti una parente mi ha lasciato il suo archivio fotografico. Questo archivio, due scatoloni di foto che sostanzialmente conoscevo, mi ha sollecitato. Gubertini è un “artista” inconsapevole – è di questo che si tratta. Un fotografo amatoriale che, con una macchinetta automatica da 50 mila lire e un rullino da 36 pose, racconta le sue vacanze fatte con la moglie Luciana. La cifra stilistica è sempre la stessa, praticamente da quando erano fidanzati: una foto a testa, “io la faccio a te e tu la fai a me”, nello stesso medesimo posto. Stessa posizione, stessa location. “Same, same but different” sembrano dire queste fotografie. Sono circa 2.000 fotografie equamente divise tra di loro: Tunisia, Scozia, Egitto, Cuba, Cina, Russia, ecc. Mai una foto di coppia, insieme, se non quelle acquistate dal fotografo dell’hotel o del villaggio. Mai un estraneo, mai un paesaggio senza di loro. Una sorte di rito propiziatorio che iniziava alla mattina all’uscita dell’hotel e finiva davanti al monumento della città.”

Ancora una tipica coppia di immagini dall’archivio fotografico Gubertini (dal libro di Kessels e Smerieri, 2021)
[3] Erik Kessels è da anni considerato uno dei più importanti critici analisti di fotografia al mondo. Insieme a Joan Fontcuberta (vedi) e Joachim Schmid (vedi) è uno dei tre “influencer” più considerati al mondo sul pensiero contemporaneo in ambito di immagini. I suoi lavori spaziano dalla ricerca sulle immagini delle riviste patinate, alla fotografia vernacolare, alle foto trouvè e agli album di famiglia. Questo percorso della fotografia contemporanea è stato iniziato in verità negli anni ’80-‘90 dal modenese Franco Vaccari, vera icona della fotografia concettuale mondiale (vedi). Smerieri ha conosciuto Kessels ad un seminario alla Fondazione Benetton di Treviso, da lì è nata un’amicizia e uno scambio epistolare su alcuni temi della fotografia che anche l’artista vignolese ha da tempo sposato: le foto degli altri. Sono esempi di questo filone alcune sue recenti realizzazioni come l’album fotografico “Vignola Bar Generation”, uno spaccato di Vignola degli anni ’80 andato esaurito in pochissimo tempo, oppure l’album “Guiglia con occhi sinceri”, il racconto della vita del paese tramite le fotografie trovate nei cassetti delle famiglie di Guiglia. Nasce così, anche grazie ad un incontro a tre, Smerieri, Kessels e Vaccari, alla galleria P420 di Bologna nel febbraio 2020, l’idea di realizzare un libro selezionando le foto dell’archivio di Carlo Gubertini nella serie, curata da Kessels, “In almost every pictures” (che con quest’opera arriva al volume n.17). Simmetria, ritualità, “democrazia di scatti” – sono questi gli aspetti di questo archivio di immagini che colpiscono Kessels, come prima avevano colpito Smerieri. “E’ interessato dalle storie contenute nelle fotografie, piuttosto che dalle fotografie in sé” – osservava The Guardian in occasione di un’intervista a Kessels nel 2016 (vedi). Ci torniamo.
[4] “Viaggiare nello spazio e fare foto di luoghi, ambienti, città, monumenti per me è diventato patetico – è ancora Smerieri che parla. Se vado a New York non la prendo neppure la macchina fotografica. Non è che sto a fare foto all’Empire State Building, al Chrysler Building o alla Statua della libertà.” La grande proliferazione di immagini di luoghi, più o meno esotici, si ribalta in una banalizzazione delle immagini, potremmo chiosare. “Trovo più interessante, invece, viaggiare nel tempo e questo la fotografia lo consente. Cosa ci trovo? Intanto delle immagini che sono più originali di quelle prodotte adesso. Se trovo una foto di Vignola di cento anni fa la trovo molto più attraente ed interessante di una foto attuale.” Questa distinzione tra fotografie contemporanee di luoghi (ripetute, comuni, e per questo più banali, financo obsolete) ed immagini storiche ci avvicina, mi pare, all’obiettivo di questa ricerca fotografica. Che è recuperare “senso”, autenticità, capacità di sorprendere. “Ciò che mi piace delle immagini di Gubertini non è nelle fotografie in quanto soggetto, paesaggio, luce. E’ piuttosto la loro operazione narrativa che mi piace, come loro due (Carlo e sua moglie Luciana) raccontano sé stessi. E’ questo criterio del «io faccio una foto a te, tu la fai a me». Ciò che mi affascina è l’utilizzo del media, non la foto in sé. (…) Stiamo parlando di un’operazione concettuale. Stiamo dando peso a persone nella loro individualità, nel loro specifico e particolare mondo, come avviene in ciascuno dei volumi della serie “In almost every pictures” di Kessels”.

Sergio Smerieri (foto del 6 marzo 2021): tre pubblicazioni che testimoniano la ricerca, nel corso degli ultimi anni, sull’archivio fotografico di Carlo Gubertini
[5] Qual è dunque il senso di questa “ricerca” fotografica? Proviamo ad interrogarci su questa visione della fotografia – la ricerca, la selezione e l’assemblaggio (in un libro, in una mostra) di immagini fotografiche scattate da gente comune, da non professionisti, e contestualmente la rinuncia a scattare nuove immagini fotografiche – su cui Kessels e Smerieri esibiscono una certa affinità elettiva (Kessels interessato dalle storie contenute nelle fotografie, Smerieri interessato a come, usando il mezzo fotografico, una coppia ordinaria racconta sé stessa nelle occasioni di viaggio). Non si tratta forse di una reazione alla “banalizzazione” delle immagini conseguente alla loro proliferazione? Una reazione alla “furia delle immagini” (cit. Fontcuberta: vedi)? In questa condizione, dunque, dove trovare ancora immagini dotate di “senso”, di un significato che giustifichi il richiamare l’attenzione su di esse? Che giustifichi il confezionarle in un libro, in una mostra o semplicemente in una cornice per essere poi appese ad una parete? La risposta è forse la seguente: nella particolarità ovvero singolarità di un frammento di mondo-della-vita di una persona comune, nella narrazione (che è sempre selezione) di uno stile di rappresentazione di sé singolare, ovvero individuale. Questa strada della fotografia non va dunque alla ricerca della bella immagine (qualsiasi cosa ciò significhi), ma di immagini che raccontano una storia (una vita) interessante nella sua singolarietà. Nel caso dell’archivio fotografico di Gubertini il “senso” è dato dalla serialità di questo rituale per cui, in ogni luogo visitato, si replica lo stesso schema «io faccio una foto a te, tu la fai a me» (in più con la particolarità che Carlo Gubertini, nel mettersi in posa, non fissa mai l’obiettivo, ma intenzionalmente distoglie lo sguardo). Insomma, come già detto: Same, same but different (uguale, uguale ma diverso). In un mondo subissato dalle immagini, tanto che queste risultano sempre più banali, la riserva di “senso” è fornita alla fotografia dalla possibilità di rappresentare l’individualità delle vite ordinarie con le loro manifestazioni singolari. E’ un percorso convincente? Il dibattito è aperto.
[6] Un’ultima considerazione. La ricerca di immagini fotografiche nei cassetti e negli archivi della gente comune alimenta realizzazioni come “Vignola Bar Generation” e “Guiglia con occhi sinceri” da un lato, e “In almost every pictures n.17” dall’altro. Il target di questi progetti è tuttavia chiaramente diverso e non è affatto detto che i due pubblici abbiano margini di sovrapposizione – popolare il primo, colto (professionale) il secondo. Ma non è detto neppure che questa frattura sia ineluttabile. Sarà interessante vedere l’evoluzione di progetti siffatti e la riuscita o meno – posto che questo diventi un obiettivo – del superamento del gap. Si apre qui una sfida interessante sia per Smerieri che per le istituzioni culturali del territorio – sempre che percepiscano il valore di questa presenza. Comunque, facciamo intanto i complimenti al nostro “cittadino illustre” (vedi) per questa straordinaria pubblicazione (chi è interessato la può trovare su Amazon – vedi – o chiedere all’autore).

Ancora una tipica coppia di immagini dall’archivio fotografico Gubertini (dal libro di Kessels e Smerieri, 2021)
PS Questo articolo è stato redatto dopo un colloquio-intervista con Sergio Smerieri tenutosi il 6 marzo 2021. In corsivo sono riportati brani di questa intervista (testo non rivisto da Sergio Smerieri). Utile per comprendere questo percorso della fotografia contemporanea (la rinuncia a produrre nuove foto ed invece l’utilizzo di “archivi” fotografici già esistenti) è il libro di Luca Panaro, Tre strade per la fotografia, APM Edizioni, Carpi, 2012, in special modo il capitolo 1 (“L’archivio come forma simbolica“).
Grazie Andrea per il bell’ articolo che hai scritto. Aggiungo un piccolo contributo alla comprensione del libro. Prima cosa, molto banale ma che sgombra il campo, è questa: non tutte le foto amatoriali, vecchie, in bianco e nero che ci sono in giro, sono attrattive. Non tutto ciò che è vintage è bello. Questo lavoro su Carlo è durato quasi due anni: visione, analisi, comparazione, stesura, testi. Insomma c’è un indagine e un approfondimento notevole dietro al libro che Erik Kessels, il quale, nei suoi altri 16 volumi porta avanti da molti anni.
Vi invito a guardarli tutti. L’altra cosa, che invece riguarda l’estetica delle fotografie di Carlo e Luciana, è : queste fotografie/immagini ovviamente non sono rivolte all’arredamento o alla pura “bellezza” intesa come capolavori. Franco Vaccari chiama queste fotografie LUMPEN FOTOGRAFIE ( aggettivo Marxista) per definirle proletarie, non manieristiche, non ambiziose, prive di vana gloria. Questi elementi, combinati tra loro, fanno nascere un lavoro estremamente interessante dal punto di vista psicologico e sociologico partendo dal presupposto che mai e poi mai la famiglia Gubertini ha pensato, nel fare nessuna di queste fotografie, che un domani sarebbe stata pubblicata…o quanto meno, ricevesse un LIKE sui social. Da Vignola/Amsterdam è tutto, passo la linea. Sergio Smerieri