L’amministrazione “civica” vignolese sta cercando di giocare un ruolo non irrilevante nel governo della sanità del distretto – lo testimonia la prosecuzione degli incontri della commissione sanitaria non istituzionale (l’ultimo si è tenuto lunedì 3 ottobre). Lo testimoniano anche le prese di posizione del sindaco Mauro Smeraldi sui problemi via via rilevati – l’ultimo relativo alla situazione dell’équipe chirurgica (in questi giorni sulla stampa locale). In ciò l’amministrazione si differenzia dall’assenteismo praticato dall’amministrazione Denti – capace solo di svegliarsi dal letargo con un’eclatante quanto improduttiva mobilitazione in difesa del pronto soccorso (vedi). Bisogna però riconoscere che se non si arriva rapidamente a predisporre un adeguato sistema informativo (ad uso di amministratori e cittadini) l’azione di controllo risulta inevitabilmente inadeguata: si focalizza l’attenzione su un limitato numero di aspetti, ma si perde di vista molto altro (vedi). La focalizzazione dell’attenzione sull’ospedale è importante (da tempo vi sono criticità non adeguatamente affrontate), ma anche l’azione di screening e di prevenzione lo è – e questi ambiti sono decisamente meno presidiati. Alcuni eventi di quest’ultimo anno invitano a prestare attenzione ai rischi di una dieta che include un eccessivo consumo di carni rosse ed anche ai mancati progressi dei programmi di screening messi in atto dall’Azienda USL di Modena.

Tasso di adesione allo screening per la prevenzione dei tumori del colon-retto. Confronto tra Azienda USL di Reggio Emilia, di Modena e di Bologna (anni 2006-2015)
[1] Un connubio tra Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM) ha di recente rilasciato un report sui tumori in Italia – I numeri del cancro 2016, questo il titolo (vedi). Il contenuto merita un po’ di attenzione. Qui ci limitiamo ai tumori del colon-retto, di cui sono stimati, per il 2016, 52.000 nuove diagnosi a livello nazionale (600 nuovi casi all’anno in provincia di Modena, secondo una stima grossolana). Si tratterebbe di uno dei tumori più diffusi: “tra gli uomini si trova al terzo posto, preceduto da prostata e polmone (13% di tutti i nuovi tumori), tra le donne al secondo posto, preceduto dalla mammella, con il 13%.” (p.96) Lo stesso report precisa che “circa l’80% dei carcinomi del colon-retto insorge a partire da lesioni precancerose (adenomi con componente displastica via via crescente). Gli stili di vita e la familiarità sono da tempo chiamati in causa quali fattori di aumento del rischio di incidenza di queste lesioni. Tra i primi spiccano fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e di insaccati, farine e zuccheri raffinati, il sovrappeso e la ridotta attività fisica, il fumo e l’eccesso di alcool. Una protezione, oltre al controllo dei citati fattori di rischio, è conferita dal consumo di frutta e verdure, carboidrati non raffinati, vitamina D e calcio e dalla somministrazione di antinfiammatori non steroidei a dosi appropriate per lungo tempo.” (p.96) E’ inoltre ai primi posti nelle cause di morte per tumore (anche se in lieve diminuzione nel corso degli ultimi anni): “nel 2013 sono stati osservati 18.756 decessi per carcinoma del colon-retto (ISTAT) (di cui il 54% negli uomini), neoplasia al secondo posto nella mortalità per tumore (10% nei maschi, 12% nelle femmine), e tra il secondo e terzo posto nelle varie età della vita.” (pp.96-97). Per contrastarne la diffusione l’azione delle aziende sanitarie è da tempo orientata su due fronti: da un lato una campagna di screening con l’obiettivo di una diagnosi precoce (ma con tassi di adesione non entusiasmanti), dall’altro un “programma” (un po’ estemporaneo per la verità) per promuovere una dieta che riduca il rischio di insorgenza.
[2] “Il programma di screening del colon-retto è indirizzato a uomini e donne dai 50 ai 69 anni di età ed è costituito da un intervento di prevenzione attiva mediante il test di ricerca di sangue occulto nelle feci (e successiva colonscopia nei casi positivi) con ripetizione regolare ogni 2 anni. (…) Per quanto riguarda i programmi di screening regionali, nel solo 2012 gli invitati sono stati più di quattro milioni, con un’adesione del 47%.” (p.97) A livello regionale l’adesione nel 2015 è risultata pari al 50,3% (dunque un po’ superiore rispetto alla media nazionale); in provincia di Modena l’adesione si colloca appena un po’ al di sotto del dato medio regionale – è infatti, nel 2015, pari al 49,9%. Tutto bene dunque? Assolutamente no. Un programma di screening che “colpisce” solo il 50% del target non può dirsi un successo. Se poi guardiamo alla serie storica si vede che nel corso del tempo l’adesione non è aumentata, ma diminuita. E ci sono provincie (es. Reggio Emilia) che fanno meglio di noi. Non bisognerebbe invitare l’Azienda USL di Modena ad uno sforzo maggiore? Ad innovare le modalità della campagna? Almeno ad emulare i “cugini” reggiani? Non dovrebbe anche questo essere un tema su cui focalizzare l’attenzione nel distretto di Vignola? Non dovrebbero essere dati questi – assieme a molti altri – accessibili con facilità per amministratori e cittadini (ovviamente organizzati per distretto: vedi)? Purtroppo così non è – da questo punto di vista anche la nuova amministrazione “civica” ha mancato l’obiettivo.
[3] Sempre il report dell’AIOM-AIRTUM parla delle carni rosse e delle carni lavorate come “fattori di rischio” (si veda il capitolo 8 alle pp.193-197). Non è una novità, ma una ulteriore conferma di conoscenze già acquisite. Un gruppo di 22 scienziati provenienti da dieci diversi Paesi, incontratisi a fine 2015 presso l’International Agency for Research on Cancer a Lione, ha concluso, dopo una valutazione della letteratura scientifica, che il consumo di carni rosse è “probabilmente cancerogeno per l’uomo sulla base di evidenze definite limitate. (…) L’associazione e stata più marcata per il tumore del colon-retto, ma evidente anche per il tumore dello stomaco e della prostata. Le evidenze sulla presenza di un’associazione tra il consumo di carni rosse e lo sviluppo di tumori del colon-retto sono state riscontrate in ben 12 dei 18 studi di coorte con dati di elevata qualità”. (p.194) “Le carni lavorate sono state invece classificate come cancerogene per l’uomo, sulla base di prove sufficienti che il loro consumo provochi il cancro del colon-retto. Gli esperti hanno concluso che ogni porzione di 50 grammi di carni lavorate mangiata ogni giorno aumenti in media il rischio di ammalarsi di tumore del colon-retto del 18% (95% CI 10-28%) e che una porzione di 100 grammi di carni rosse mangiata ogni giorno aumenti in media tale rischio del 17% (95% CI 5-31%).” (p.194) Qualche mese prima le stesse conclusioni riportate in un report dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) aveva provocato levate di scudi proprio in provincia di Modena ed in particolare nel “distretto” locale di lavorazione delle carni suine (Castelnuovo e Spilamberto). Evidentemente le sollecitazioni ad una modifica della dieta alimentare (che non comporta necessariamente l’abbandono di carni rosse e carni lavorate, ma un loro minor consumo sì) toccano importanti interessi economici.
[4] Con un’iniziativa che non si sa se definire folkloristica, scaramantica o semplicemente stupida il PD di Castelnuovo Rangone (epicentro di quello che fu il “distretto” delle carni suine) aveva inteso “replicare” all’allarme OMS con una bella grigliata cittadina (Il Resto del Carlino – Modena, 1 novembre 2015: pdf). Anche il superzampone cittadino di fine 2015 venne presentato come la “risposta” agli allarmi, evidentemente ritenuti eccessivi o fuori luogo, dell’OMS circa l’eccessivo consumo di carni rosse e carni lavorate (tra cui prosciutti, salami, salsicce … cotechini, zamponi, ecc.) (Il Resto del Carlino – Modena, 1 dicembre 2015: pdf). Ovviamente da parte dell’Azienda USL di Modena si preferì evitare di intervenire (sarebbe anche interessante sapere cosa dicono nelle iniziative di “educazione alla salute” fatte nelle scuole di Castelnuovo). Istituzioni e forze politiche dovrebbero schierarsi dalla parte della “razionalità” (che vuol dire salute dei cittadini) ricercando modalità intelligenti di gestione delle evidenze scientifiche – di questo si tratta – che suggeriscono di ridurre i consumi di carni rosse e carni lavorate. Ogni cittadino deciderà poi in che misura attuare una siffatta riduzione, ovvero “quanto” rinunciare di una tradizione alimentare che risale ai Longobardi – ma le informazioni date debbono essere chiare e corrette. Anche l’Azienda USL di Modena deve prendere sul serio il tema, mettendo a punto una comunicazione mirata per la specificità del “distretto del maiale”. Oltre a dotarsi di un’organizzazione ed una “campagna” che accresca la compliance verso lo screening. Agli enti locali spetterebbe il compito di monitorare tale performance (magari assieme ai cittadini) e di sollecitarne il miglioramento (se a Reggio Emilia l’adesione è al 60% è troppo chiedere che Modena non sia da meno?). C’è qualcuno che si ritiene impegnato in ciò?
PS Nel Bilancio di missione 2015 dell’Azienda USL di Modena sono riportati i dati di adesione allo screening nel 2015 nei diversi distretti. Il valore più alto si registra nel distretto di Carpi (56,4%), segue il distretto di Vignola con il 54,3% (i valori differiscono di qualche punto percentuale da quelli regionali per le correzioni apportate nel metodo di calcolo). In ogni caso si tratta di valori significativamente più bassi di quelli dell’Azienda USL di Reggio Emilia.