65° anniversario dell’eccidio di Pratomavore. Un commento

Il 65° anniversario dell’eccidio di Pratomavore ha visto l’introduzione di alcuni elementi di novità nella celebrazione dell’evento. Non uno ma due i giorni dedicati al ricordo. Sabato 13 febbraio con la manifestazione sul luogo dell’eccidio. Domenica 14 febbraio con la celebrazione di una messa, presso la Chiesa di Pratomavore, a suffragio dei caduti. Ancora più significativa è la partecipazione degli alunni delle classi quinte della scuola elementare di Vignola, resa possibile dallo svolgimento della manifestazione nella giornata di sabato (oltre che dalla sensibilità del Circolo Didattico di Vignola e del suo dirigente). Queste innovazioni testimoniano della volontà dell’amministrazione comunale di dare maggiore rilevanza sociale all’evento, promuovendo una più ampia partecipazione della cittadinanza.

Deposizione della corona d'alloro sul monumento ai caduti di Pratomavore (foto del 13 febbraio 2010)

La cerimonia di oggi, 13 febbraio, ha visto dapprima il saluto del sindaco Daria Denti che ha quindi letto un discorso tenuto da Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica Italiana, in tema di libertà e democrazia (si tratta del discorso al Parlamento spagnolo, tenuto a Madrid il 28 maggio 1980 – si trova anche su Internet: vedi): “alla più perfetta delle dittature io preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie.” Sono seguiti gli interventi dell’On. Laura Garavini, del giovane consigliere comunale Daniele Mislei e del prof. Alberto Preti, docente di storia contemporanea dell’Università di Bologna. Personalmente ho particolarmente apprezzato questi ultimi due interventi (complimenti sinceri al consigliere Mislei!). La nuova formula si muove nella direzione auspicata in un post dell’agosto scorso (vedi). Allora avevo preso spunto dalla discussione bolognese sul “rinnovo” della celebrazione della strage di Bologna del 2 agosto, per sviluppare un’analoga riflessione sulle modalità della commemorazione dell’eccidio di Pratomavore (13 febbraio 1945). Senza un adeguato investimento sociale i riti muoiono, perdono rilevanza fino a non coinvolgere più la gran parte della comunità (vedi). Le innovazioni del 2010 sono un primo timido tentativo di trovare una strada per la rivitalizzazione. Cosa certamente non facile. Vale la pena rifletterci ulteriormente ed “investirvi” in misura ancora più significativa.

Medaglie al valore della Resistenza modenese (foto dell'11 febbraio 2007)

[1] I riti legati alla Resistenza sono spesso riti fortemente politicizzati. Contengono elementi di ambivalenza, essendo sia riti del ricordo, della memoria del sacrificio di vite umane della lotta per la libertà. Ma sono anche una modalità della “lotta politica” contemporanea. Solo che in questo secondo aspetto hanno progressivamente perso efficacia, valore. Lo testimonia, prima di ogni altra cosa, la scarsa partecipazione che si registra oggi rispetto al passato (scarsa partecipazione che, purtroppo, ha caratterizzato anche l’anniversario n°65). Il fatto che la stragrande maggioranza dei partecipanti, anche di oggi, abbia alle spalle una storia “comunista” va riconosciuto per quello che è: un problema. Occorre riconoscere che la politicizzazione del rito oggi ne riduce la capacità di attrazione, la capacità di “dire qualcosa” in modo generalizzato alla città (apporre in calce al volantino l’usuale dizione “la cittadinanza è invitata a partecipare” rischia di diventare un modo per eludere il problema; il dato di fatto è che “la cittadinanza continua a non partecipare”). Da questo punto di vista il coinvolgimento delle Istituzioni scolastiche va nella giusta direzione: quello di allargare il “pubblico” del rito, quello di renderlo di più un rito civile – di tutta la città – e di meno un rito politico (di una “parte” soltanto, ovvero di un partito). Certo bisogna dire che il target adeguato non sono gli alunni di quinta elementare. Bisognerebbe invece coinvolgere gli studenti delle medie superiori! Quegli studenti che, davvero, hanno la possibilità sia di far tesoro dell’esperienza del rito (di apprendere dal prendervi parte), ma anche di trasformarlo già con la loro presenza (attiva). Bisogna però insistere su questo fronte, allargando ancora di più l’orizzonte e coinvolgendo maggiormente la città. Le modalità si possono trovare.

Particolare del monumento ai caduti di Pratomavore, opera dello scultore vignolese Marco Fornaciari (foto del 13 febbraio 2010)

[2] Il rito civile di oggi si riferisce ad avvenimenti di 65 anni fa, accaduti in un contesto completamente diverso da quello di oggi. Si pone dunque un problema di “attualizzazione”. Come rendere attuali quegli eventi (ed il messaggio ad essi associato)? E’ qui in gioco la tensione tra vicenda storica ed attualità. O, meglio: è in gioco la capacità di presa sul presente delle vicende di ieri. Che cosa dicono, quegli eventi, quelle vite sacrificate, ai cittadini di oggi? Spesso nei discorsi ricorre la contrapposizione tra democrazia e dittatura. Contrapposizione corretta dal punto di vista storico, ma sfuocata se rapportata all’attualità. Oggi assai meno significativa. Il richiamo a questa contrapposizione – che abbiamo sentito anche oggi in piazza Caduti di Pratomavore – non “ha presa” sull’oggi, visto che oggi nessuno si sogna di auspicare o difendere la dittatura. Il problema è semmai che i confini che allora separavano due regimi contrapposti (dittatura/democrazia), oggi si sono spostati, per così dire, all’interno del campo del regime democratico. Nessuno auspica l’abbandono della democrazia. Ma questa generalizzata “convinzione democratica” nasconde distinzioni fondamentali. Vi sono cioè democrazie reali più o meno democratiche. E vi è, dunque, la possibilità che una democrazia reale si avvicini o si allontani dal “modello” ottimale di regime democratico (nel primo caso si parlerà di processo di democratizzazione; nel secondo di processo di degenerazione della democrazia). Ciò a cui assistiamo oggi in Italia è un processo di degenerazione, di erosione della democrazia. Tra gli ultimi a ricordarcelo è Alfio Mastropaolo in una “lezione” su Democrazia e populismo (ora in Bovero M., Pazé V. (a cura di), La democrazia in nove lezioni, Laterza, Bari, 2010, pp.64-84: vedi). L’erosione dei diritti della persona, dei diritti delle minoranze, del pluralismo sociale, culturale e politico, la riduzione della pluralità dei mezzi di informazione, l’uso della legittimazione del voto popolare per disarticolare l’equilibrio dei poteri, la riduzione del cittadino a consumatore oppure a spettatore, e così via, sono fenomeni che si registrano oggi in Italia (non solo in Italia, in verità, ma da noi in modo particolare) e che abbassano la “qualità” della democrazia. Sono fenomeni e processi di degenerazione.

Monumento ai caduti di Pratomavore (foto del 31 maggio 2009)

Per contrastare queste distorsioni occorre produrre “anticorpi” sotto forma di cittadini consapevoli dei fragili prerequisiti della “buona” democrazia. Alla domanda “per che cosa morire oggi?” è dunque più difficile dare una risposta netta. Non basta dire “la libertà” o “la democrazia”. Non basta una cultura politica che riconosce la superiorità della più imperfetta delle democrazie sulla più perfetta delle dittature. Questo era per il passato. Oggi l’equivalente della dittatura, l’equivalente del fascismo si presenta sotto altre spoglie (è la domanda che si pone Mastropaolo: “dietro il cosiddetto populismo non si nasconderà per caso il nuovo fascismo?” (p.83)). Colin Crouch, a sua volta, usa il termine postdemocrazia per uscire dalla semplice contrapposizione tra democrazia e non-democrazia (dittatura) e per richiamare l’attenzione sulla nuova configurazione delle democrazie moderne (vedi). “L’idea di postdemocrazia ci aiuta a descrivere situazioni in cui una condizione di noia, frustrazione e disillusione fa seguito a una fase democratica; quando gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élite politiche hanno appreso a manipolare e guidare i bisogni della gente; quando gli elettori devono essere convinti ad andare a votare da campagne pubblicitarie gestite dall’alto.” (pp.25-26) Se queste descrizioni colgono il segno, allora è il caso di aggiornare la cultura politica che fa da sfondo alle celebrazioni dei riti civili ed ai discorsi di commemorazione delle vite umane sacrificate per la Resistenza e per la Repubblica – ad esempio attingendo da una teoria discorsiva della democrazia e del diritto come quella di Jürgen Habermas, alle teorie della democrazia deliberativa o alla concezione della “politica per amatori” di Gerry Stoker. E queste teorie ci sensibilizzano sul fatto che la qualità della democrazia è correlata alla possibilità di un vigoroso dibattito pubblico (qualcuno è per caso convinto che ci sia?); alla facilità, per ogni cittadino, di accedere alle informazioni rilevanti (provare per credere); ad una più ampia distribuzione della responsabilità politica; all’empowerment dei cittadini. Se l’attualizzazione dei “valori” della Resistenza procedesse in questa direzione essa produrrebbe anche uno stimolo importante per rimettere in gioco le prassi sedimentate della democrazia locale (sì, quella esercitata a Vignola!). Più informazioni, più arene di confronto e discussione, più trasparenza nei processi decisionali, più efficacia alla partecipazione e così via. Oggi manca una visione complessiva di questi requisiti per una “democrazia di qualità” (anche a livello locale). Manca anche una narrazione che conferisca unitarietà ed appeal a questa visione (prerequisito indispensabile per socializzarla). In ogni caso, oggi, l’attualizzazione del messaggio della lotta partigiana passa più su questi temi che sulla riproposizione della contrapposizione, storicamente consumata, tra democrazia e dittatura.

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