Con ogni probabilità si tratta del prodotto “tipico” modenese più conosciuto a livello internazionale: l’aceto balsamico. Prossimamente entreranno in vigore le norme legate all’ottenimento dell’IGP (vedi). E’ dunque importante cogliere questa occasione per ragionare di sviluppo locale, produzioni tipiche ed “economia dell’esperienza”, secondo la formula di Pier Luigi Sacco. Lo facciamo con questo post di Francesco Galli, già assessore all’ambiente ed all’agricoltura del Comune di Vignola.
Lo scorso mese di giugno, il Comitato permanente per le Indicazioni geografiche e le denominazioni di origine protetta della Commissione Europea ha concesso la denominazione IGP (Indicazione Geografica Protetta) all’aceto balsamico di Modena, al termine di un percorso avviato quindici anni fa (la prima richiesta per l’IGP è infatti del 1994). Con questa tutela, in pratica, si certifica che anche l’aceto balsamico industriale potrà essere prodotto solo in Emilia-Romagna e nel rispetto di uno specifico disciplinare di produzione. Un risultato atteso e salutato con favore da tutti i produttori, dopo anni di battaglie e scontri intestini, ma anche applaudito con convinzione dagli amministratori locali e dai rappresentanti della Consorteria dell’aceto balsamico tradizionale. Tutti d’accordo, tutti felici. Anche se qualcuno, come chi scrive, continua a nutrire più di una perplessità, ma trattandosi di tema particolarmente complesso e già deciso, più che una contrapposizione di ragioni è interessante il ragionamento in sé.
Prima di entrare nel merito delle questioni proviamo a ripercorrere la storia dell’IGP per l’aceto balsamico di Modena che inizia con la violenta contrapposizione con il Consorzio dell’aceto balsamico tradizionale di Modena, che nel 2000 aveva ottenuto la DOP (Denominazione di Origine Protetta). Per chi non fosse dentro all’argomento: l’aceto balsamico tradizionale di Modena è il nome commerciale dell’aceto balsamico che viene storicamente prodotto da tante famiglie modenesi, lasciando ridurre il mosto cotto nelle pregiate botticelle di legni diversi. Un prodotto di qualità eccelsa, come confermano i prezzi a cui viene venduto rigorosamente nella botticella marchiata a fuoco dal Consorzio, la cui origine si perde nella notte dei tempi, intorno al 1100. L’aceto balsamico di Modena, invece, si ottiene dalla lavorazione industriale del mosto e, prima dell’ottenimento dell’IGP, poteva essere prodotto in qualunque parte del mondo. Ovviamente anche il prezzo di vendita al pubblico è assai diverso. Ma torniamo alla storia dell’IGP, con appunto il Consorzio dell’aceto balsamico tradizionale di Modena che all’inizio degli anni 2000, dopo l’ottenimento della DOP, cerca di impedire ai produttori di aceto balsamico industriale di utilizzare il nome per non generare confusione nei consumatori e ottiene una prima vittoria con il divieto per loro, sancito dal tribunale, di usare contemporaneamente i nomi “balsamico” e “Modena”. Lo scontro è durissimo e per uscire da un empasse, fatto di ricorsi e controricorsi, nel 2004 i tre consorzi di produttori – Comitato produttori indipendenti aceto balsamico di Modena, Consorzio produzione certificata aceto balsamico modenese (vedi), Consorzio aceto balsamico di Modena (vedi) – decidono di inviare, con l’aiuto degli enti locali, Provincia in primis, alla Commissione Europea la domanda di registrazione del marchio IGP per l’aceto balsamico di Modena. Nell’ottobre 2006 la Commissione Europea rigetta la richiesta, sostanzialmente perché non era possibile dimostrare scientificamente per quale motivo solo i mosti dell’Emilia-Romagna sarebbero adatti per produrre l’aceto balsamico. Di conseguenza, secondo la Commissione Europea, concedere l’IGP ad un prodotto che si può tranquillamente fare in Cina come in Australia, sarebbe stato in contrasto con il mercato libero. Produttori, Provincia di Modena, Regione Emilia-Romagna e Ministero delle Politiche agricole (ma non era stato abolito con un referendum? Altra storia) non si arrendono, ma la Commissione Europea è inflessibile. Si arriva così al novembre del 2006 quando i produttori di aceto industriale decidono di modificare il disciplinare di produzione presentato all’Europa nel 2004, e inseriscono un’indicazione vincolante sul mosto da cui partire per produrre l’aceto. Mosto che dovrà essere realizzato solo con uve provenienti da sette specifici vitigni: lambruschi, sangiovese, trebbiani, albana, ancellotta, fortana e montuni. Praticamente la quasi totalità della produzione viticola della regione. Si definiscono poi alcuni parametri riguardanti l’acidità totale minima e l’estratto secco minimo dei mosti. In pratica vengono accolte tutte le richieste della Commissione Europea. Ma non è finita perché, contro l’IGP fanno opposizione le autorità di Francia, Germania e Grecia, ma ormai la strada è in discesa e nel giugno scorso ecco arrivare l’attesa denominazione.

Botti di dimensioni e legni diversi per la produzione dell'aceto balsamico "tradizionale": come vuole l'usanza ogni batteria è marchiata con il nome di un figlio od un nipote
La storia, oltre che a chiarirsi le idee e a mettere qualche punto fermo, serve anche a far capire quanto sia stato difficile ottenere l’IGP per l’aceto balsamico di Modena, mentre per l’aceto balsamico tradizionale di Modena è stato molto più veloce. Pur cambiando nel nome solo la parola “tradizionale” la differenza tra i due prodotti è enorme, sia da un punto di vista organolettico, sia per la metodologia produttiva, sia per storia e gusto. Resta il fatto che per l’Italia si è trattato di una grande vittoria politica, contro Francia, Germania e Grecia, mentre i produttori di aceto balsamico industriale avranno dalla decisone della Commissione Europea un grande vantaggio economico. Di fatto: nessun altro al mondo potrà produrre l’aceto balsamico industriale, quando invece negli anni scorsi la concorrenza c’era eccome. In più questo risultato è stato conseguito con grande unità d’intenti tra enti locali, Ministero e produttori e anche questa è una buona notizia. Tanto più che in tempo di crisi e di industrie che chiudono e di posti di lavoro che si perdono, avere un prodotto agroalimentare in esclusiva non è certo male. Da un punto di vista economico, dunque, un grande risultato, anche se chi avrà la voglia di arrivare sino in fondo al mio ragionamento leggerà anche una tesi opposta, per quanto riguarda gli agricoltori.
In tal senso è interessante osservare la reazione della CIA, la Confederazione Italiana Agricoltori, alla notizia dell’IGP: “Ovviamente – scrive la CIA in un comunicato stampa – è adesso importante che ci sia un miglioramento del disciplinare dell’aceto balsamico di Modena IGP, anche attraverso accordi di filiera per garantire un effettivo legame con il territorio dell’Emilia-Romagna, con l’utilizzo di uve e mosti regionali. In questo modo verrebbero tutelati gli agricoltori e soprattutto i loro redditi”. Siamo ad un primo punto cruciale. Cosa significa “accordi di filiera”? Significa che non obbligatoriamente le uve da cui ottenere il mosto devono provenire dall’Emilia-Romagna e, di conseguenza, garantire un reddito agli agricoltori locali, ma è sufficiente, come prevede il disciplinare dell’IGP che provengano da sette specifici vitigni: lambruschi, sangiovese, trebbiani, albana, ancellotta, fortana e montuni. Ora, trattandosi dei vitigni più diffusi in regione, dovrebbe essere quasi scontato che i produttori di aceto balsamico industriale si approvvigionino dagli agricoltori emiliani, ma la CIA, forse per mettere le mani avanti, chiede di fare accordi di filiera, ossia patti ufficiali che regolamentino la questione. A chi non conosce la materia potrebbe apparire scontato, ma ovvio non è. Costa molto meno, tanto per fare un esempio che si richiama ad un fatto recente, produrre pellet in Ucraina piuttosto che usare gli sfalci di potatura modenesi. Poi, magari, succede che questo risulti radioattivo, ma il business è business. Da qui la richiesta della CIA che, c’è da augurarsi, venga accolta in tempi brevi, anche perché gli enti locali in questa vicenda ci hanno messo molto del loro, motivando la scelta proprio con l’interesse preminente non soltanto dell’industria agroalimentare, ma anche degli agricoltori.
Diamo perciò per scontato che questo accada e che, dunque, per fare l’aceto balsamico di Modena IGP si utilizzi solamente uva prodotta in Emilia-Romagna. In questo modo, da un punto di vista economico il cerchio si chiude: soddisfatti gli industriali, soddisfatti gli agricoltori. Adesso però cambiamo il punto di vista e mettiamoci nei panni dei consumatori. Panni difficili da vestire considerando che, ancora, le etichette dei prodotti sembrano manuali scientifici e che solo pochi giorni fa sono state vietate le pubblicità ingannevoli. Tanto più che una recente mobilitazione di Coldiretti ha dimostrato come arrivino dall’estero molte derrate alimentari che poi magicamente vengono trasformate in prodotti made in Italy. Siamo nel campo della frode, nulla a che vedere con l’aceto balsamico industriale, ma è per far capire come i consumatori siano il soggetto più debole della catena agroalimentare. E, invece, dal mio punto di vista, l’interesse prevalente dovrebbe essere proprio quello dei consumatori. Perché consumatori siamo tutti noi. Tutti indistintamente, dal Polo Nord al Polo Sud. Sette miliardi di persone che aspirano a vivere al meglio e che dovrebbero essere il punto di riferimento e di partenza delle scelte politiche. Ora, stando al nostro caso, voi vi immaginate come può un consumatore giapponese distinguere tra due prodotti che si chiamano “Aceto Balsamico di Modena IGP” e “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP”. Già i modenesi meno interessati all’argomento rischiano di fare confusione, figurarsi gli altri. Tanto più che entrambi i prodotti godono di una certificazione ufficiale di qualità della Commissione Europea. “Al massimo – penserà il nostro consumatore giapponese, quand’anche avesse capito che si tratta di due prodotti diversi – uno è più invecchiato e l’altro meno”. Impossibile anche solo che immagini che si tratta di due prodotti diversissimi, uno che nasce dalla storia e dalla tradizione familiare, l’altro di origine industriale. Non fossi modenese, non conoscessi perfettamente questa differenza, farei lo stesso e quando scoprissi l’inganno, non ne sarei neanche un po’ contento. Ancorché sia tutto regolare. Qui non si tratta di una frode o di una truffa, ma di una confusione organizzata, che trae inevitabilmente in inganno, certamente a vantaggio dei produttori industriali, con ogni probabilità anche degli agricoltori, ma a tutto discapito del consumatore e, permettetemi di dirlo, anche dei produttori di Aceto balsamico tradizionale, che saranno meno, faranno un prodotto costosissimo e di nicchia ma, checché ne dica qualcuno, nulla hanno da guadagnare dall’accostamento con l’Aceto balsamico di Modena IGP. E qui arrivo alla conclusione. Abbiamo sempre detto sinora che da un punto di vista economico l’IGP è stato un successo. Ma è davvero così? Non sarebbe stato meglio per il territorio difendere l’Aceto balsamico tradizionale e vietare l’uso combinato di “balsamico” e “Modena” per l’industriale come diceva quella prima sentenza, di cui si accennava all’inizio? Magari, per avvicinare i consumatori meno danarosi, i produttori di balsamico tradizionale avrebbero potuto mettere in commercio un aceto più giovane – oggi deve avere almeno 12 anni di invecchiamento in botte – avrebbero potuto varare una linea meno d’élite e così via. Se così fosse stato, anziché due prodotti diversi, praticamente con lo stesso nome, ne avremmo in commercio soltanto uno, di qualità assoluta, immediatamente riconoscibile dai consumatori di tutto il mondo, senza dubbi o fraintendimenti. E, magari, con il passare degli anni, la promozione e l’inevitabile successo, sempre più modenesi avrebbero deciso di investire in aceto balsamico tradizionale e, magari, nel tempo si sarebbe scoperto che anche da un punto di vista macroeconomico poteva convenire non avere l’IGP.
PS. Ci sarebbe anche un altro prodotto, l’aceto balsamico di mele, di cui oggi è persino vietata a commercializzazione. Avessi dovuto scegliere io, avrei puntato sull’Igp per il balsamico di mele, l’aceto che facevano i poveretti che non si potevano permettere l’uva.
Francesco Galli
PPS. Si stima che il valore di mercato dell’Aceto Balsamico di Modena si aggiri (2008) intorno ai 290 milioni di euro. Nel 2004 Nomisma aveva calcolato che con un turnover (relativo al 2002) di 200 milioni euro, l’Aceto Balsamico di Modena si sarebbe collocato al 10° posto per valore di mercato tra tutti i prodotti del paniere DOP/IGP Italiano, a ridosso della Bresaola della Valtellina. In merito al prezzo, a seconda delle qualità, dell’invecchiamento e dei confezionamenti, si va da 3 a 60 euro al litro al pubblico. Esiste quindi molta differenza con l’Aceto Balsamico Tradizionale, un prodotto di Modena e Reggio Emilia che gode già della DOP e che per le proprie caratteristiche superiori viene posto in vendita con prezzi da 500 a 1500 euro al litro.
Un bel libro realizzato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale (Insor) – Barberis C. (a cura di), La rivincita delle campagne, Donzelli, Roma, 2009 – dedica un capitolo anche ai marchi Dop/Igp. Nella parte dedicata ai “problemi” del sistema attuale vi si trova scritto (p.244): “E che dire del ‘pasticcio’ nel quale si sono infilate le istituzioni italiane, sotto la spinta degli industriali del comparto, accreditando una denominazione, ‘aceto balsamico di Modena’ Igp, simile a quella di una Dop esistente (‘aceto balsamico tradizionale di Modena’), nel presupposto che il consumatore sia perfettamente in grado di comprendere la distanza qualitativa tra i due prodotti tutelati e, forse, anche nella speranza che il principio secondo il quale la moneta cattiva scaccia quella buona subisca nel caso concreto una vistosa eccezione?” Insomma, un momento di gloria anche nell’ultima pubblicazione dei sociologi rurali – anche se per un “pasticcio”!
Ma non basta il libro dei sociologi rurali! Anche “Striscia la notizia” (il noto programma di Canale 5), nella puntata di sabato 28 novembre, si occupa del “caso” dell’aceto balsamico di Modena:
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Anche se nel servizio si parla come se le norme sull’IGP fossero già pienamente in vigore (cosa che non è).