Esce ora da Laterza l’ultimo saggio pubblicato prima di morire da Ralf Dahrendorf, uno dei più importanti sociologi del XX secolo (vedi). E’ dedicato alla crisi. Precisamente è un esercizio di “immaginazione sociologica” sul dopo crisi (pubblicato su Merkur nel maggio 2009, ora tradotto, appunto, da Laterza: Dopo la crisi. Torniamo all’etica protestante? vedi). Nonostante la forma libro si tratta di poche pagine: una ventina il saggio di Dahrendorf, una quindicina la postfazione di Laura Leonardi (già curatrice di una presentazione di Dahrendorf al pubblico italiano: vedi). Di quale crisi si tratti è chiaro: quella esplosa nel 2007-2008 e che prima ha investito gli USA come crisi bancaria, quindi i paesi europei (quelli dell’area mediterranea) come crisi del debito sovrano, quindi in modo differenziato paese da paese come crisi economica (vedi). Nel 2009, quando scriveva Dahrendorf, non sapevamo quale portata avrebbe avuto la crisi economico-finanziaria (si è anche temuto per la fine dell’euro). Certo trarre conclusioni oggi è prematuro, anche se possiamo dire che si è riusciti ad evitare esiti catastrofici, anche se per alcuni paesi, tra cui l’Italia, si prospettano ancora anni di sofferenza (non sappiamo ancora a cosa porterà il “marketing della speranza” di Matteo Renzi, al governo solo dal febbraio 2014). Immaginare dunque il dopo crisi è impresa tutt’altro che semplice. Provarci è però intellettualmente stimolante e inoltre può aiutare nelle scelte politiche di oggi.

Giorgio Morandi, Cortile di via Fondazza, 1954 (Fondazione Magnani-Rocca, foto dell’8 novembre 2015)
[1] Come reagiscono alla crisi le diverse società? Nessun automatismo, osserva Dahrendorf. Soprattutto non bisogna dare per scontato la nascita spontanea di movimenti di protesta. Questi ci sono stati, ma sino ad ora marginali (Occupy Wall Street, Indignados, ecc. vedi). Anche nei paesi più colpiti (Grecia, Spagna, Italia) non si legge un’unica tendenza. La risposta, cioè, non è univocamente una forte mobilitazione popolare. E non è automaticamente “più sinistra”. Sgombrare il campo dagli equivoci e dalle aspettative erronee è salutare. Nel 2009, anzi, colpiva innanzitutto la mancanza di proteste di massa. Osserva Dahrendorf: “la crisi ha prodotto indubbiamente vittime, ma non ha creato una nuova forza politico-sociale capace di promuovere un cambiamento di mentalità in nome di un’immagine del futuro che abbia prospettive di successo. Per il sociologo la cosa non è sorprendente. Quando indaga sulla crisi il suo pensiero corre non tanto al Manifesto del Partito Comunista quanto a Die Arbeitlosen von Marienthal [I disoccupati di Marienthal: vedi] (1933). Davanti alla grande crisi di ottant’anni fa, lo studio di Marie Jahoda e altri dimostrò come gli uomini che perdono tutto o temono di perdere tutto reagiscano più rifugiandosi nell’apatia che impegnandosi nell’azione. Ma sono pronti a farsi facilmente mobilitare (un’idea, questa, già presente anche nel Manifesto). Essi sono vittime consenzienti di demagoghi che nelle situazioni appropriate li spingono a sollevarsi e protestare” (pp.17-18). Dahrendorf ha torto a ritenere che ogni mobilitazione sia conseguenza dell’emergere di un “demagogo” (non lo è necessariamente ogni politico che incita alla protesta: vi sono infatti differenze significative negli argomenti con cui si spinge alla protesta e negli obiettivi perseguiti), ha invece indubbiamente ragione quando osserva che non esiste alcun automatismo: perdita del lavoro (o impossibilità di trovare un lavoro dignitoso), riduzione del reddito e della ricchezza, peggioramento delle condizioni di vita non generano automaticamente proteste di massa. Da questo punto di vista sarà interessante condurre un’analisi comparativa tra i paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi economica. Grecia, Spagna e Italia hanno ad oggi mostrato, ad esempio, percorsi politici diversi a testimonianza che il peggioramento delle condizioni di vita (conta però quanto ed a quanti) è solo uno degli ingredienti; l’altro è la presenza di leader (e movimenti od organizzazioni politiche) in grado di proporsi quali convincenti catalizzatori della protesta e della mobilitazione. In Grecia Tsipras ha portato Syriza, partito di sinistra, alla vittoria nel 2015, ma senza poi riuscire ad incidere nel negoziato con la UE (vedi). In Spagna sapremo presto se Podemos, anch’essa formazione di sinistra, figlia del movimento degli Indignados, vincerà le elezioni (cosa che ad oggi pare improbabile, nonostante la ripresa economica abbia evidenti fragilità: vedi). In Italia non si prospetta l’emersione di un forte partito di sinistra (nonostante le fuoriuscite dal PD, tra cui quella di Stefano Fassina: vedi), mentre appare probabile la prosecuzione della competizione tra Matteo Renzi (con il PD) e Beppe Grillo (con il M5S). Insomma, un po’ dappertutto il quadro politico è determinato non solo dall’asse destra/sinistra, ma anche da quello politica/antipolitica. Quadro economico, umori “sociali” di lungo corso, offerta di leadership si combinano dando vita a configurazioni diverse paese per paese.
[2] Ma il dopo crisi su cui Daherendorf si interroga non riguarda solo il cambiamento delle politiche governative. La crisi avrebbe innescato mutamenti che vanno oltre gli (abbastanza limitati) cambiamenti delle politiche, ovvero “le misure che i governi promuovono e che in un modo o nell’altro cercano di attuare” (p.19). Riguarda anche il “cambiamento di mentalità”, ovvero il cambiamento culturale di ampi strati di popolazione. Insomma, il peggioramento delle condizioni dell’economia e della società “potrebbero anche diventare occasione per un nuovo cambiamento di mentalità” (p.22). Dahrendorf parla di “nuovo” cambiamento di mentalità perché ha in mente le trasformazioni intervenute dopo la seconda guerra mondiale, innanzitutto con la crescita del benessere economico. In questi settant’anni si è passati “dal capitalismo di risparmio al capitalismo di debito” (p.7), ovvero da un capitalismo che richiedeva dedizione al lavoro e risparmio ad un capitalismo che si regge invece su “edonismo materialista” e consumi diffusi, spesso impiegando per l’acquisto le risorse non ancora guadagnate (debito non solo per gli investimenti, ma anche per i consumi). Si è cioè affermato un modello di crescita economica che ha spinto per l’abbandono di quegli atteggiamenti (appunto dedizione al lavoro e propensione al risparmio) che l’avevano prodotta – minando però in tal modo la stabilità della crescita stessa. Non è certo una tesi nuova – le radici di questo pensiero risalgono almeno a Max Weber, ma poi sono state variamente elaborate da autori come Joseph A.Schumpeter e Daniel Bell. Il “dispositivo” si configura come una sorta di “effetto boomerang” (espressione coniata da Schumpeter): l’iniziale propellente dello sviluppo economico induce un cambiamento nei comportamenti che però “consuma” il propellente stesso. La profonda crisi economica può allora introdurre un nuovo cambiamento. Insomma il dopo-crisi non sarà – questo almeno per Dahrendorf – il vecchio “capitalismo di risparmio” (con annessa “etica protestante” di cui al sottotitolo del libro), ma non sarà neppure il più recente “capitalismo di debito” (con annesso edonismo dei consumi) che ci ha portato nella crisi. Quest’ultimo deve “essere ricondotto a una misura sopportabile”. Invece “è necessario qualcosa come un «capitalismo responsabile»” (p.27), un capitalismo cioè caratterizzato da “un nuovo rapporto con il tempo”. Dahrendorf fa alcuni esempi che ci consentono di comprendere cosa ha in mente (pp.21-24): compensi ai manager legati non più ai risultati a breve, ma a medio termine; regole di successione ai vertici societari più trasparenti; maggiore centralità degli stakeholders rispetto agli shareholders (azionisti); una più decisa politica di lotta al cambiamento climatico. In sintesi “un nuovo rapporto col tempo nell’economia e nella società è dunque il cambiamento di mentalità centrale che potrebbe nascere dalla crisi” (p.24). E’ realistica questa prospettiva o riflette la speranza dell’autore? Quali forze sono in moto per orientare il cambiamento in questa direzione? In realtà il sociologo dovrebbe sapere che come non è automatico che la crisi generi protesta collettiva (per cui servono risorse di leadership ed organizzative), allo stesso modo non è automatico che la crisi generi quel cambiamento di mentalità, quel cambiamento culturale (e delle istituzioni). In effetti non si vedono all’opera istituzioni o forze sociali che spingono per ottenere quei cambiamenti, ovvero – per dirla con Dahrendorf – “un nuovo rapporto col tempo nell’economia e nella società”. In realtà la crisi economica ha rallentato, non accelerato, le politiche di lotta al cambiamento climatico; sobrietà è un’etichetta per la compressione forzata dei consumi, più che un nuovo orientamento consapevolmente perseguito; e perché la responsabilità sociale d’impresa si diffonda senza venire annacquata occorrono autorità di monitoraggio e controllo oggi non presenti (ma a cui nessuno sembra interessato). E così via. L’esortazione di Dahrendorf è salutare: “non si perda di vista il dopo crisi” (p.27). Visto che “in questi anni si decide in che mondo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere” (p.27). Sarà che da quando Dahrendorf ha scritto questo saggio sono passati 6 anni, ma oggi è più difficile condividere quella visione ottimistica che traspare nel testo.
[3] Non è incoraggiante, ad esempio, quanto succede a livello degli enti locali (in Italia), dove le politiche di questi anni di crisi sono improntate alla continuità, piuttosto che alla discontinuità (vedi). La riduzione delle risorse a disposizione degli enti locali ha portato ad una progressiva contrazione dei servizi (alcuni sono stati dismessi, altri sono stati esternalizzati nel tentativo di ridurre la spesa, in altri casi è cresciuta la compartecipazione degli utenti, ecc.), ma senza la capacità di una riflessione complessiva (e magari partecipata: vedi) sul profilo di servizi da offrire alla comunità pensando sia all’impatto della crisi (una risposta alla quale sarebbero politiche di creazione d’impresa e di occupazione), sia al dopo crisi (es. politiche di lotta al cambiamento climatico). Non mi sembra ci siano significative differenze in base al “colore politico” della maggioranza: anche nelle realtà (come Vignola) con maggioranza “civica” non si vedono attuare politiche significativamente diverse rispetto alle altre amministrazioni PD della zona, come se, una volta “catturati” dalle istituzioni venissero a restringersi fortissimamente i margini di manovra. In generale questi ambiti sembrano poco presidiati e “amministrati” senza un’adeguata visione strategica. PAES ed efficientamento energetico della città sono scomparsi dall’orizzonte (vedi). Economia del riuso e del riciclaggio sono svaporati davanti alle “bocche tarate” dei cassonetti di HERA. Sul marketing territoriale ci sono anche singole progettualità interessanti (vedi), ma senza un disegno d’insieme. Di creazione d’impresa sembra non occuparsi nessuno (se non, a modo suo e sulla base di una delega totale, Democenter-Sipe: vedi), come se non fosse anche in gioco quella che si usa chiamare green economy. Però la “redistribuzione alla rovescia” (si usano le risorse di tutti per finanziare eventi culturali per pochi) è ancora la cifra di troppe iniziative (vedi). Insomma, dal punto d’osservazione locale si fatica a percepire il cambiamento di mentalità che Dahrendorf prefigura o, almeno, auspica. “Un nuovo rapporto col tempo nell’economia e nella società” non sembra essere dietro l’angolo. Almeno fino a quando nelle istituzioni prevarranno i fattori inerziali.
Ciao Andrea, grazie per questa riflessione…è sempre un piacere farsi accompagnare dalle tue parole per tentare di fermarsi un attimo a “soppesare” l’oggi sulla base di quanto è accaduto nel recente passato per provare a trovare un “pensiero-guida” che ci esorti chi a continuare un impegno di “lotta” chi a svegliarsi dal torpore e dall’apatia.
E’ da molti lustri che siamo, tutti, abituati a comprare il tempo con la conseguenza che nessuno più vive il proprio tempo. Quanto a Dahrendorf ripropone, per molti aspetti, il modello renano che ha ben conosciuto e dove è sostanzialmente vissuto. Sulle “nuove” amministrazioni, mi pare che anche tu prenda atto di ciò che il macellaio di Bologna fatto sindaco, ebbe a dire dopo la sua elezione e cioè che non si sognava nemmeno di produrre chi sa quali cambiamenti laddove, soprattutto aggiungo io, il servizio funziona e funziona bene, solo in ragione del fatto che “comunque” bisogna cambiare. Secondo me, purtroppo, non sono pochi gli amministratori e i diversi enti esistenti sui territori, che devono ancora metabolizzare la fine del policentrismo regionale. Quanto ai civici che governano Vignola, sono d’accordo con te, potevano evitare di mettere “bocche” più strette sui cassonetti dell’indifferenziato. Generalmente(quindi sempre), non è una politica nuova nella raccolta dei rifiuti a meno che non la si pensi tale per il fatto che la raccolta avviene ai piedi e ai lati dei cassonetti. Potremmo dire tante cose di altre situazioni, come tu fai, ma a chi serve?
Dahrendorf scrive questo saggio nei primi mesi del 2009 e, per questo, non è in grado di cogliere alcuni aspetti che emergeranno con chiarezza solo in seguito, quando l’Unione Europea si rivelerà inadeguata a gestire l’asimmetria della crisi dentro la gabbia comune dell’euro. Oggi questa situazione – dopo il vano tentativo della Grecia di sottrarsi alla morsa delle politiche dell’austerity somministrate dalla troika – è chiara a tutti. Ed è una situazione che ha alimentato e continuerà ad alimentare l’emergere di “populismi” di destra e di sinistra. E’ un fenomeno raccontato in modo chiaro da Sergio Fabbrini nell’ultimo numero de “Il Mulino” (n.5/2015), nel saggio “Il nuovo populismo europeo” (pp.822-829). I “connotati sempre più tecnocratici e gerarchici” assunti dall’Eurozona intergovernativa hanno generato una “reazione popolare”. Un fenomeno che accompagna questi anni di crisi, ma che si trascinerà anche nel post-crisi (una fase che per i paesi più colpiti, quelli della fascia mediterranea, non è attesa a breve). E che non è stato previsto da Dahrendorf. L’emergere di “movimenti populisti anti-europei” (come il Front National in Francia, il M5S e la Lega Nord in Italia). Il possibile antidoto è, secondo Fabbrini, la leadership popolare, e soprattutto “leader multi-livello” in grado di giocare e contare tanto a livello nazionale (il tema è quello delle riforme) quanto a livello europeo (il tema è quello del cambiamento delle politiche UE). Renzi è un siffatto leader? Al momento no, vista la sua debolezza sul secondo livello, quello europeo (ma più d’uno dubita anche della sua leadership sul primo livello). Comunque, sia al livello politico, sia al livello socio-culturale (dove il cambio di mentalità che Daherendorf registra ed auspica stenta ad affermarsi) le cose appaiono più complicate. Il quadro volge al peggio e non ci sono segnali che giustifichino alcun ottimismo.
Anche il quadro locale non consente facili ottimismi – con qualche differente sfumatura (forse io confido più di Michele nella capacità di apprendere), ma anch’io vedo una grande difficoltà innanzitutto della giunta dell’Unione a definire adeguate strategie per questo territorio. La richiesta del sindaco di Castelnuovo Carlo Bruzzi di un “tagliando” al “patto di legislatura” siglato al momento dell’assegnazione della presidenza al “civico” Smeraldi è avvenuta in modo irrituale, ma ha un fondamento: l’Unione non sta funzionando adeguatamente, ovvero può e deve fare meglio.
https://amarevignola.wordpress.com/2015/08/17/il-sindaco-di-castelnuovo-carlo-bruzzi-chiede-un-tagliando-sulla-gestione-dellunione/
C’é un deficit di leadership – non certo un fenomeno di questi ultimi mesi, ma un fenomeno oramai cronico per l’Unione. Disastrosa è stata la gestione da parte delle due presidenze (Lamandini/Denti) nella passata legislatura. Ci hanno condotto con molta facilità all’attuale impasse. Gli attori di oggi non hanno la forza (di visione, di capacità, di autorevolezza) di tirarci fuori. Almeno per ora. Le dinamiche relazionali che si sono manifestate sulle vicende della Polizia Municipale e del canile intercomunale dicono questo. Certo, attori intelligenti rifletterebbero su queste “crisi” ed imparerebbero qualcosa. Anche solo che così non si va molto avanti.