“Messa in sicurezza“, “riqualificazione”. Queste espressioni, due fra le tante, sono il connotato quotidiano della comunicazione istituzionale, soprattutto a livello locale, quando si affronta il tema degli interventi che vanno a modificare assetti e situazioni consolidate. Si tratta in qualche modo di parole d’ordine, che tradiscono spesso pigrizia intellettuale (nel senso che vengono usate senza specifica contestualizzazione), a volte volontà di mascherare (cioè di nascondere nella genericità dei termini l’aspetto problematico, composito, di una scelta a forte impatto).

“Riqualificazione paesaggistica” realizzata dalla ditta Wood Energy sulla sponda destra del Panaro (foto del 25 febbraio 2015)
Scendiamo nell’ambito che ci preme. Parliamo di ambiente naturale, cioè di quella realtà complessa, caratterizzata da fragili equilibri e, quindi, estremamente delicata, inadatta, nonostante le grandi capacità di recupero, ad accettare azioni antropiche volte a trasformare, senza un’analisi complessiva e specifica degli assetti di un sistema ecologico.
Muoviamoci ancora. Arriviamo al fiume, al Panaro, accanto al quale un tempo lontano sorsero gli insediamenti da cui sono nati tanti dei nostri comuni. Cos’è il Panaro? Possiamo definirlo in vari modi. Ci piace pensarlo come un grande corridoio di vita che si snoda per ben oltre cento chilometri dalla montagna al Po, nelle cui acque continua il suo viaggio fino al mare. Un percorso di vita naturale, differenziato nei vari tratti (ancora torrente dopo la congiunzione di Leo e Scoltenna, da cui trae origine, fiume ampio nell’alta pianura, a Marano, Vignola, Savignano, Spilamberto, San Cesario, corso d’acqua canalizzato nell’area di pianura), ma di configurazione unitaria se inteso nel suo dispiegarsi attraverso lo spazio geografico. Insistiamo sul carattere vitale dell’ecosistema Panaro e, se parliamo di ecosistema, dobbiamo concentrarci sulle sue componenti. Non pedantemente. Non scolasticamente. Qui ci limitiamo a sottolineare che, come in qualsiasi altro ambiente naturale, nel sistema ecologico fluviale la vegetazione è l’elemento base delle catene e delle reti alimentari in esso presenti. Tutto l’impianto della vita si sviluppa dalle piante: dalle erbe, dagli arbusti, dagli alberi che crescono sulle ripe. Alle piante sono vincolati gli animali erbivori, ai quali si rivolge l’ esigenza predatoria dei carnivori, in un collegamento di anelli di cibo che ha nella continuità la garanzia di sussistenza.
Bene. Da quanto si è detto dovrebbe esser chiaro che quando si interviene, per qualunque ragione, sulla vegetazione fluviale, occorre grande oculatezza e, soprattutto, la consapevolezza che un’azione non conforme alla conservazione di certi equilibri potrebbe risultare distruttiva.

“Messa in sicurezza” di un’area a vegetazione spontanea sulla sponda destra del fiume Panaro (foto del 25 febbraio 2015)
Finalmente perveniamo all’oggetto primario del nostro interesse. Leggi: quel che sta succedendo in questi giorni sulla sponda destra del fiume Panaro, in territorio del Comune di Savignano s. P. Per comodità facciamo riferimento a un articolo di giornale (Gazzetta di Modena, 15 febbraio 2015), in cui, oltre alla descrizione dell’intervento, compare una dichiarazione dell’assessore alle Politiche ambientali del Comune. In essa si sostiene che l’iniziativa in fieri, relativa al parco fluviale da Doccia a Formica e al percorso natura di Garofalo, “non sarà un’azione di disboscamento, ma di selezione delle alberature, per creare un interasse tra pianta e pianta che, a seconda dei casi, vada da quattro a sei metri. Le piante rimanenti avranno quindi la possibilità di svilupparsi in modo adeguato e, contestualmente, risponderanno alle esigenze di sicurezza ambientale e per i cittadini… Per dare una percentuale dell’intervento, possiamo dire che l’operazione di diradamento sarà attorno al 40-50%…”. Per chiarire: stiamo parlando di un progetto dell’amministrazione comunale, la quale, in concorso con le autorità regionali, si è rivolta alla ditta bolognese Wood Energy, che produce e commercializza cippato, e con essa ha definito i termini di un’azione di rimozione di gran parte delle alberature presenti nella zona succitata. Lo stimolo all’iniziativa è venuto dalla pesante nevicata del 6/7 febbraio, causa di numerosi schianti.
Proprio qui sta il punto. I comuni vivono una condizione di scarsità di risorse finanziarie e umane e, di fronte a una situazione problematica (per favore, usiamo la parola emergenza per altri casi), possono sentirsi all’improvviso attratti dal canto ammaliatore delle sirene. Quindi, di fronte all’esigenza di rimuovere le piante cadute, anche se solo molto parzialmente in contesti di garanzia di sicurezza, dovendo fare i conti con i pochi mezzi a disposizione, agli occhi dei responsabili comunali si presenta come panacea insperata la possibilità di risolvere altrimenti la questione. Pochi se, pochi ma. Si va avanti in questa direzione. Demandiamo a un privato quel che dovrebbe essere compito interno, concedendo tutto quanto esso richiederà. Le piante crollate lungo i percorsi saranno rimosse. Non importa se, per svolgere questo incarico, la ditta richiede l’abbattimento di gran parte di alberi e arbusti delle boscaglie igrofile da sempre presenti sulle sponde del Panaro. Infatti, questo è l’elemento fondante: il costo. Si legge nell’articolo precedentemente citato: “La ditta che eseguirà i lavori, la Wood Energy di Bologna, sosterrà tutte le spese di personale e di macchinari, tenendosi in cambio il legno tagliato, per farne cippato da vendere sul mercato”. Quindi operazione a costo zero. Costo zero? Come, come? Il sacrificio di una ricca porzione di vegetazione spontanea è costo zero?! A tal proposito ricordiamo che esistono studi consolidati riguardanti il valore economico del patrimonio naturale. Ma, al di là di questo, come non tener presente, in un’analisi costi/benefici, l’amplissimo spettro dei servizi gratuitamente (!) dispensati dagli ecosistemi di natura. Costo zero? Abbassiamo lo sguardo, al suolo martoriato dai mezzi pesanti che stanno muovendosi in questi giorni sulla sponda destra del Panaro. Anch’esso, il suolo, è un incredibile ecosistema, anch’esso delicatissimo. Al momento, a lavori iniziati da un paio di settimane, la porzione superficiale del terreno coinvolto, la più ricca di vita, la più fragile, si presenta come fanghiglia inerte. Certo, ci auguriamo che le energie intrinseche del fiume riescano a cicatrizzare, in qualche modo a ripristinare. Ma – se succederà – in quanto tempo? Di conseguenza poniamoci dei perché. Perché scelte tanto sconnesse, non diciamo da una consapevolezza profonda, bensì anche dal buon senso? Siamo difatti di fronte a un’iniziativa mai neppure concepita nel passato, quando – crediamo – il legame culturale, oltre che affettivo, con il fiume era condizione reale.

“Riqualificazione paesaggistica” lungo la sponda destra del fiume Panaro (foto del 25 febbraio 2015)
Torniamo al significato delle parole. Nell’occasione si è parlato di “riqualificazione paesaggistica”. Fermiamoci subito. Vuol forse tale formula significare che è necessario intervenire nei contesti naturali per arrecare un ordine che essi non sanno darsi? Ordine che doma il caos? Vogliamo – vien da domandarsi – dislocare lungo il Panaro l’“ordine” dei giardini urbani, specchio fedele della volontà di controllo capillare sulle ambizioni di spontaneità della vegetazione? Ma il “disordine” della natura – ci rivolgiamo a chi vuole fermarsi all’inganno dell’apparenza – non è forse il garante della ricchezza biologica, della biodiversità e della bellezza paesaggistica?
E poi: “sicurezza”. Pare proprio termine svuotato di significato da quando a tutto viene applicato, in contrappeso “mediatico” all’insicurezza avviluppante che ha contagiato le nostre esistenze contemporanee. Tutto sicuro deve essere. O messo in sicurezza. Senza discrimine. Al punto che sembra sia in atto un interminabile percorso verso l’irresponsabilità critica individuale e collettiva.
Concludiamo. In una realtà fortemente antropizzata quale la nostra è manifesto il bisogno di un controllo diffuso sui diversi aspetti che la compongono, al fine di garantire la tranquillità sociale e l’aspirazione a una vita libera dalle paure. Ma, appunto perché i processi della storia hanno portato a definire una società variegata e complessa, sempre pronta a rimodellare le prospettive dell’esistente, dobbiamo difendere con gli strumenti della civiltà quel che ancora resta di un patrimonio antichissimo. Al fiume, in giorni lontani e non ripercorribili libero di espandersi a suo piacimento e ora testimone solitario della “nostra” natura perduta, va garantito il diritto di conservare il suo corridoio di vita, senza il timore di sentirsi colpito al cuore dalla bizzarria degli uomini, pur anche in buona fede.
Enzo Cavani
Completo e perfetto, Enzo, il tuo ragionare. Razionale e scientifico, perciò benevolo. Oggi pomeriggio dalla sponda Vignolese guardavo il disastro sulla riva opposta. Una lepre correva sulla spiaggetta accanto all’acqua cercando quel folto in cui fino a pochi giorni fa trovava rifugio sicuro da cani, volpi e chissà quale altro predatore, magari anche a due zampe. Ha fatto oltre cento metri e poi ha attraversato in direzione opposta al fiume la distesa del bosco tagliato… sempre in vista. Sarà stata disperata…certamente più di me, ne va subito della sua vita. “Sicurezza”? Per chi?
Ho pensato a fra qualche anno quando “paesaggisti securitari giardinieri presidisti” si saranno dimenticati di ciò che hanno fatto oggi e l’ailanto e l’amorfa e la robinia e il bambù avranno riempito i vuoti dei pioppi, dei salici, dei noccioli …. e tutto ciò, pur avendo dilapidato un patrimonio comune, senza spendere nulla.
Evviva!!
Grazie Enzo, belle considerazioni. Il fiume è vita, quella vita che gli uomini non hanno imparato a rispettare.
Vorrei raccontarvi una storia, una vicenda che si sviluppa in Emilia Romagna da qualche anno e a che vedere l’assegnazione di lavori di manutenzione e messa in sicurezza delle piante nelle aree a rischio idrogeologico e non. In questa storia il filo rosso che unisce piccoli comuni, svincoli autostradali e capoluoghi di provincia si chiama Wood Energy di Matteo Fedele. Negli ultimi ventiquattro mesi pare che l’unica azienda in grado di effettuare lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria sia la Wood Energy, la quale riesce ad ottenere appalti da diverse amministrazioni con l’assicurazione che i lavori saranno effettuati a costo zero. Una coincidenza che tra tante aziende, sempre una ne esca vincente. Altro discorso il guadagno ottenuto attraverso la vendita del cippato alle varie centrali a biomassa presenti in Regione (l’azienda vende legname anche ad aziende e privati).
Peccato che quanto accaduto di recente a Lesignano e Langhirano non sia, propriamente, una novità:
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/12/31/news/savena_la_strage_degli_alberi_lungo_il_fiume-130393267/
https://amarevignola.wordpress.com/2015/03/08/noi-e-panaro-parola-e-realta-di-enzo-cavani/
Ecco quindi le domande necessarie:
1. Perchè la ditta Wood Energy di Matteo Fedele riesce ad ottenere così spesso ed in così tante amministrazioni l’autorizzazione a lavorare nonostante (domanda successiva)
2. Perchè viste le palesi inadempienze e i danni causati in passato si continua ad affidare la gestione di un bene comune a tali soggetti?
3. La Wood Energy evidentemente non dispone delle competenze necessarie ad effettuare lavori a regola d’arte nel rispetto dell’ambiente secondo le disposizioni delle varie amministrazioni e della normativa vigente in termini di tutela del patrimonio ambientale?
E’ errato pensare di supporre viste le precedenti indagini (Green Money su tutte) un possibile giro di denaro al fine dell’ottenimento dei lavori.
Saluti.