Come per l’amministrazione Denti, anche l’amministrazione Smeraldi vede trai suoi primi atti l’avvio di un percorso partecipativo. Nell’autunno 2009 si trattò di incanalare in un percorso partecipativo i conflitti sorti attorno al progetto di riqualificazione di via Libertà ed in particolar modo circa il destino dei tigli che costeggiano quel viale (vedi). Cinque anni dopo, nell’autunno 2014, il tema è più soft: si tratta di decidere, coinvolgendo i cittadini, la destinazione d’uso di Villa Trenti, vecchia sede della biblioteca comunale, dopo che il progetto di farne la sede dell’archivio storico comunale (vedi) è stato abbandonato perché non convincente per i nuovi vertici della Fondazione di Vignola (vedi). Per quanto riguarda l’amministrazione Denti sappiamo com’è finita: l’impulso partecipativo si è sciolto come neve al sole dopo i primi insuccessi, segno della mancanza di convinzione (oltre che di adeguate competenze) (vedi). Vedremo se la nuova amministrazione, assai più convinta della necessità di coinvolgere i cittadini nel governo della città, riuscirà a fare meglio. Intanto sabato 4 ottobre si inizia con una giornata seminariale “a due facce”: una riflessione più generale al mattino; al pomeriggio un laboratorio sul futuro di Villa Trenti (qui la locandina in pdf). Partecipare conviene.

Ridisegnare le istituzioni per spezzare il rircolo autoreferenziale della politica. Una vignetta di Altan
[1] Guest star del mattino è Gino Mazzoli, classe 1955, laureato in giurisprudenza a Parma e quindi specializzato in analisi organizzativa e conduzione di gruppi di lavoro presso lo Studio di Analisi Psicosociologica di Milano, fondatore nel 1999 di Praxis Srl (società di consulenza, ricerca e formazione nell’ambito del welfare e del terzo settore), coordinatore nazionale di “Spazio Comune” (rete di esperienze di cittadinanza attiva che dal 2010 connette laboratori, persone e organizzazioni di diverse regioni italiane prevalentemente sui temi del welfare: vedi), dal 2011 membro del consiglio della fondazione bancaria “Pietro Manodori” di Reggio Emilia, ecc. Chi fosse interessato ad un’anticipazione dei temi che Mazzoli tratterà sabato mattina può utilmente leggersi questo capitolo su “Arricchire l’intelaiatura della democrazia”, tratto da un “supplemento” della rivista “Animazione sociale” del 2012 (pdf).

Nell’attesa occorre che anche la “società civile”, nelle sue migliori espressioni, si dia da fare. Una vignetta di Bucchi
[2] In assenza di modelli consolidati di “democrazia partecipativa” impiantabili nella realtà locale (Porto Alegre sta dall’altra parte dell’Atlantico) è inevitabile che ogni amministrazione costruisca un proprio percorso di proposta, risultandone anche un percorso di apprendimento. Più che focalizzare l’attenzione sugli aspetti della visione di Mazzoli che trovo meno convincenti (la retorica delle “nuove vulnerabilità” – addirittura la “rivoluzione dei vulnerabili” – come dispositivo motivante delle nuove sperimentazioni partecipative) trovo più produttivo svolgere qualche considerazione sul tema, anche alla luce delle esperienze partecipative di questi ultimi anni (da “Via della Partecipazione”: vedi; agli incontri sul PSC: vedi; all’Iniziativa di Revisione Civica sul progetto di comune unico di Valsamoggia: vedi; ma anche sulle “occasioni mancate” come la progettazione del Parco di via di Mezzo: vedi). L’ambizione, infatti, dovrebbe essere non tanto quella di mettere in campo uno o più “percorsi partecipativi” a tema ogni anno, ma quella di innovare le pratiche della democrazia locale, innestando un po’ più di “partecipazione” in istituzioni democratiche che rimangono comunque “rappresentative” (e che debbono però essere fatte funzionare meglio proprio in quanto istituzioni rappresentative: vedi).
[3] Insomma, occorre evitare di “gettare il bambino con l’acqua sporca” (la democrazia rappresentativa è comunque una conquista evolutiva, di cui non siamo in grado di fare a meno nonostante le controindicazioni che essa manifesta – es. generazione di apatia). Si tratta quindi di rinnovarla aumentando la trasparenza dei processi decisionali (significa riconoscere ai cittadini un potere di controllo, ma anche di partecipazione – secondo modalità che possono cambiare in relazione all’oggetto, ai tempi, ecc. – quando si catalizza un interesse sociale sufficiente); prevedendo dei dispositivi di switch-on della partecipazione (es. per indire un referendum occorre testimoniare l’interesse alla partecipazione mediante la raccolta delle firme); innovando le modalità di rendicontazione (quale uno degli strumenti per migliorare accountability e responsiveness delle istituzioni). Ed è per fare questo che occorre mettere a punto il giusto know how su come sviluppare processi di partecipazione efficaci, ma anche su quali decisioni “aprire” alla partecipazione dei cittadini. Su quest’ultimo punto si dovrebbe prevedere un duplice meccanismo: da un lato tutti gli atti di pianificazione (PSC, Piano Urbano del Traffico, PAES, ecc.) o di progettazione di “grandi opere” (locali) dovrebbero essere “partecipati” (di default); dall’altro occorre consentire la partecipazione laddove esiste un “sufficiente” interesse sociale (in tal caso occorre predisporre dei meccanismi di attivazione della partecipazione a disposizione dei cittadini).

Vignola Cambia all’opera per un diverso progetto di sistemazione di via Libertà (foto del 26 agosto 2013)
[4] E’ evidente, nel pensiero di Gino Mazzoli, la tensione per una partecipazione “inclusiva”. Una partecipazione, cioè, che non sia “in prevalenza limitata ai «soliti noti» (settori più organizzati della società civile, portatori di interessi forti)” (Mazzoli, cit., p.31). Per contrastare questo fenomeno propone dunque “uno stile partecipativo (di tipo incrementale, che qui vorrei proporre) volto a costruire i problemi con i cittadini, soprattutto con quelli che abitualmente non partecipano, attraverso il lavoro di piccoli gruppi che, progressivamente, costruiscono un tessuto istituente in grado di costituire una massa critica significativa” (Mazzoli, cit., p.32). Il tema ha la sua importanza, ma va relativizzato e, soprattutto, visto in prospettiva. In una situazione dove sugli atti di pianificazione più importante si sono sino ad ora coinvolte percentuali minuscole della popolazione di riferimento (i 400 partecipanti al “percorso partecipativo” sul PSC dell’Unione Terre di Castelli costituiscono meno dell’1% dei cittadini adulti residenti) è sufficiente puntare con decisione ad un incremento dei partecipanti, senza preoccuparsi troppo del loro grado di “vulnerabilità” o di “marginalità”. Ciò a cui si deve mirare non è tanto il successo del singolo evento partecipativo, ma la costruzione e diffusione di una prassi partecipativa. Appunto, una routine della democrazia locale. E’ vero che l’interesse a partecipare non è distribuito in modo omogeneo nella popolazione locale (essendo comunque correlato al livello di istruzione e culturale). Ma è anche vero che il modo migliore per far crescere l’interesse a partecipare sta nel creare occasioni di partecipazione di successo (in cui la gente sperimenta concretamente che “partecipare conta” – il contrario di quanto accaduto con Via della Partecipazione e con la partecipazione al PSC!). La promozione di una “comunità partecipante” richiede dunque la reiterazione di esperienze partecipative, ovvero la trasformazione della partecipazione in routine. Se la “partecipazione” non è un’attività spot, ma diventa invece routinaria, allora possiamo convenire che vi possono sempre essere “tavoli partecipativi” sufficientemente differenziati per tema e per complessità della materia da poter comunque catturare una parte significativa della cittadinanza (ancorché plausibilmente minoritaria). Chi non è interessato agli astratti processi di pianificazione sarà più facilmente attratto dall’opportunità di partecipare a realizzazioni più “concrete” – un parco, una scuola, la viabilità del quartiere, ecc. – e questo diventa un dispositivo di produzione di “abilità partecipative” e di ulteriore “interesse alla partecipazione”. Una partecipazione del 20-30-40% della popolazione target sarebbe comunque un risultato straordinario. In ogni caso non si deve rinunciare al principio dell’accesso pubblico (ogni interessato deve poter partecipare), foss’anche per contrastare la “partecipazione dei soliti noti”. I metodi della democrazia deliberativa “in-vitro” (giurie di cittadini o Iniziative di Revisione Civica, come abbiamo visto per la Valsamoggia: vedi), ovvero finalizzate a coinvolgere “mini-pubblici” costruiti con l’intento di garantire “rappresentatività” della popolazione più ampia, contraddicono un principio irrinunciabile: ogni interessato deve poter partecipare. Essi sono surrogati dell’unica reale democrazia deliberativa, quella in-vivo (che può coinvolgere potenzialmente tutta la cittadinanza – anche se realisticamente i cittadini effettivamente partecipanti sono qualche centinaio o qualche migliaio).
[5] Siamo così arrivati al vero discrimine: l’elemento “deliberativo”. “Un’ipotesi di riarticolazione dei dispositivi della democrazia come quella qui formulata, letta con le categorie della scienza politica, verrebbe catalogata nel filone di riflessioni e pratiche che ruotano intorno alla «democrazia deliberativa».” (Mazzoli, cit., p.34) Mazzoli prosegue quindi dichiarandosi non appassionato alle dispute terminologiche. In realtà bisogna riconoscere che nel termine “deliberativo” c’è un elemento per così dire programmatico. Sostanziale. Il momento dell’espressione della volontà (il voto) deve essere visto in relazione con il processo di formazione della volontà, che è necessariamente un processo dialogico, comunicativo. Informazioni ed argomenti sono essenziali per la qualità delle decisioni che si assumono. Il termine “deliberativo” rimanda dunque all’attività di pubblico dibattito che precede l’assunzione della decisione. Il nucleo deliberativo è dato dal “dibattito” condotto “in modo pubblico”. Per questo ogni argomento proposto nella discussione va preso sul serio (un fatto che implica che ad ogni argomento deve essere data risposta, pure questa in modo pubblico) visto che in ogni argomento (e contro-argomento) si nasconde la possibilità di una chances di apprendimento. Oltre a ciò la discussione pubblica funziona come dispositivo di “lavaggio” delle preferenze (per quanto in modo imperfetto), ovvero come dispositivo che facilita l’emersione di argomenti che possono incontrare l’accettazione degli altri partecipanti per via della loro presunzione di ragionevolezza. Lo spazio istituzionale della partecipazione incentiva il ricorso a “ragioni” riconoscibili e disincentiva l’espressione delle mere preferenze, private (anche a seguito di una “funzione civilizzatrice dell’ipocrisia” di cui parla Jon Elster). Insomma, il riferimento all’aspetto “deliberativo” della partecipazione (e dunque della democrazia) non è affatto affare nominalistico. Esso orienta la strutturazione dei processi partecipativi in una precisa direzione: a tutti debbono essere offerte le medesime informazioni e le decisioni si assumono ponderando gli argomenti ed i contro-argomenti, ovvero i pro ed i contro, che sono stati prodotti dai partecipanti nello spazio pubblico (indipendentemente dal fatto che il processo partecipativo si chiuda con un voto vincolante per le istituzioni o invece semplicemente con la consegna di argomenti e controargomenti a quelle istituzioni che mantengono a sé il potere decisionale). Bernard Manin arriva addirittura a proporre l’istituzione del “contraddittorio” obbligato – il cosiddetto “avvocato del diavolo” – per ogni decisione importante!
[6] Comunque sia, il compito che sta davanti alla nuova amministrazione “civica” a partire dal seminario di sabato 4 ottobre è declinare in norme (regolamenti di partecipazione, ecc.) e prassi concreta una visione sufficientemente sofisticata di un nuovo modello di democrazia locale. In cui da un lato vi sia una tensione a rinnovare la locale democrazia rappresentativa, dall’altro a sperimentare con continuità forme di coinvolgimento della cittadinanza nei principali processi decisionali. Con la consapevolezza che il compito non potrà di certo ritenersi esaurito con l’approntamento di un paio di processi partecipativi all’anno. Serve invece un’innovazione assai più pervasiva. Con questo seminario il percorso di riflessione e di innovazione istituzionale è solo iniziato.

Villa Trenti, la vecchia sede della biblioteca comunale (foto del 23 marzo 2013). Sabato 4 ottobre si tiene un “laboratorio” per decidere della sua futura destinazione d’uso.
PS I materiali informativi non chiariscono adeguatamente le modalità del percorso partecipativo relativo alla futura destinazione di Villa Trenti. Qualcosa in più dice la relativa delibera di giunta, n. 120 del 23 settembre 2014 (pdf): “il percorso partecipativo, finalizzato all’individuazione della destinazione culturale di Villa Trenti, prevede, oltre al laboratorio in questione, un periodo di consultazione in rete della durata di un mese e un Consiglio Comunale aperto da tenersi nei primi giorni del mese di novembre”. Non resta che augurarci buon lavoro!