L’ultimo libro di Aldo Schiavone (Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica, Rizzoli, Milano, 2013, pp.219, 15 euro: vedi) è una riflessione, svolta in un linguaggio accessibile a tutti, sulla “crisi” della “democrazia rappresentativa”, con anche un tentativo di coglierne i processi di superamento in atto e di prefigurare modalità per andare oltre. Per Schiavone diventa possibile una democrazia in cui si restringono gli spazi della rappresentanza ed aumentano, invece, quelli della democrazia diretta. Consentendo così di recuperare il concetto di “sovranità popolare”.
[1] L’espressione “democrazia rappresentativa” è in realtà un ossimoro, visto che “democrazia” (il potere del popolo di fare le leggi) e “rappresentanza” (l’individuazione di un gruppo ristretto di cittadini a cui affidare, senza vincolo di mandato, il compito di fare le leggi) sono principi contrapposti (lo ha spiegato in modo chiarissimo Nadia Urbinati, a cui Schiavone si collega: vedi). L’equilibrio raggiunto tra di loro con le democrazie moderne del XIX e XX secolo si regge dunque su una tensione non risolta, né risolvibile una volta per tutte, tra due forze divergenti (cfr. p.48). Ma è comunque un equilibrio che, avendo retto per qualche decennio, ci ha consegnato anche l’illusione che la realtà della democrazia non possa che essere questa: democrazia rappresentativa. Ovvero una democrazia in cui i cittadini si limitano ad eleggere i propri rappresentanti. E poco altro (vedi). Il primo messaggio del libro – forte, chiaro e ben argomentato – è dunque un messaggio di rottura di ciò che oggi diamo per scontato. L’ideologia della «fine della storia» ha portato ad una “sorta di eternizzazione apologetica della forma di governo in quel momento esistente” (p.50). Che è però, per l’appunto, ideologia. In realtà anche la democrazia è un fenomeno storico, dunque soggetto a mutamenti nel corso della storia. Ed anche la forma della “democrazia rappresentativa”, nata dalla saldatura dell’idea medioevale della rappresentanza con l’idea antica dell’autogoverno (appunto, democrazia), è dunque transitoria. Non solo. Sarebbe anzi giunta alla fine del suo ciclo vitale – questo testimonierebbe l’emergere di sintomi di malessere sempre più acuti. Una condizione che non riguarderebbe solo le realtà istituzionalmente più fragili, come l’Italia, ma tutte le democrazie dell’occidente. “La democrazia rappresentativa è un Titanic che sta schiantandosi” – ha sintetizzato pochi giorni fa Barbara Spinelli (vedi), per poi proseguire: “Tra governanti e governati c’è un deserto, e in mezzo campeggia un miraggio di rappresentanza: sono deboli i sindacati, spenti i partiti, e la stampa più che i lettori serve i potenti”. Caduta delle ideologie, fluidificazione sociale e “mobilitazione cognitiva” dei cittadini (alimentata dalla scolarizzazione di massa e dai mass media – ora anche dai personal media) sono i fattori che alimentano disillusione e sfiducia nel rapporto tra cittadini e politica. Fenomeni generalizzati, ma che in Italia sono molto più acuti per il “girare a vuoto” del sistema politico e l’autoreferenzialità del ceto politico, tanto da farsi spesso “casta”. Da qui il montare diffuso della sfiducia o anche dell’ostilità verso i politici. Il manifestarsi di una vera e propria “sindrome della delegittimazione democratica” (p.24). Che va appunto intesa come una sintomatologia della sconnessione tra cittadini ed una determinata forma di democrazia e che segnala l’urgenza di un suo forte aggiornamento (o forse anche superamento). “Quella che da noi si sta chiamando «antipolitica» è in realtà non rifiuto della politica, che anzi sta divenendo l’oggetto di una rinnovata passione, quanto piuttosto rifiuto della democrazia nei termini in cui ci è stata consegnata dalla tradizione costituzionale” (p.26).
[2] Un secondo merito del libro è quello di non rinunciare al nocciolo normativo della democrazia, ovvero all’idea della “sovranità popolare”. Sappiamo che questo tema era stato marginalizzato nella riflessione teorica sulla democrazia, sino all’apogeo rappresentato da Schumpeter – un autore che, senza remore, ha definito la sovranità popolare una finzione, pura ideologia (vedi). Per lungo tempo la teoria della democrazia è rimasta incanalata nei solchi tracciati da Weber e da Schumpeter, confidando di poter rinunciare alla dimensione normativa, se non per convinzione per necessità, in seguito alla crescente complessità delle moderne società funzionalmente differenziate. Oggi nuove condizioni sociali (mobilitazione cognitiva) e tecnologiche (Internet) consentono nuovamente di scindere le forze che, in precario equilibrio, hanno generato la democrazia rappresentativa: voto democratico (di tutti) e rappresentanza possono di nuovo staccarsi e ricombinarsi diversamente. Insomma, si rimette in movimento il rapporto tra rappresentanza e democrazia, ovvero partecipazione di tutti alla formazione della volontà collettiva. Ma per Schiavone – e questo è un ulteriore merito – ciò non significa rinunciare del tutto alla “rappresentanza” e vagheggiare una nuova democrazia solo diretta (che, grazie alle nuove tecnologie, si configura come una e-democracy, una “democrazia digitale”). Sarebbe, questa, “una pericolosa illusione”, un “inganno”. “Le nostre società sono troppo complesse, articolate e difficili da gestire per essere governate solo attraverso il sorteggio delle cariche pubbliche (come ad Atene) e un flusso continuo di votazioni telematiche e di verifiche del consenso. (…) Dire che la rappresentanza moderna è in una crisi irreversibile di rappresentatività (…) non significa affatto credere che, in futuro, se ne possa fare a meno” (pp.96-97). Si tratta, insomma, di ripensare l’equilibrio tra i due principi, senza rinunciare completamente a quello per lungo tempo dominante ed ora in crisi: la rappresentanza. Muoversi di nuovo verso “l’idea di una sovranità nelle mani di un popolo ridefinito nella soggettività e nei poteri in seguito al mutamento della sua composizione sociale, dei livelli d’informazione, delle tecnologie cui può accedere.” (p.101)
[3] Il nuovo orizzonte è dunque chiaro: restringere gli ambiti della rappresentanza per dare maggior potere alle forme di democrazia diretta, senza tuttavia rinunciare per intero alla prima (almeno “per un certo tempo” – p.107). “Il ritorno di un paradigma integrale di democrazia diretta sull’onda delle reti informatiche è un mito senza speranze di diventare realtà, e inseguirlo non porta da nessuna parte. (…) Dobbiamo piuttosto pensare a una forma mista di democrazia, insieme rappresentativa e diretta, che connetta in modo ravvicinato autogoverno e delega” (p.108). La via proposta è quella di riformare l’istituto del referendum (ad esempio grazie al voto telematico), così da renderlo atto ad “una consultazione periodica della cittadinanza su un arco di temi predefiniti, al fine di costruire un modello più articolato, coinvolgente e diretto di produzione legislativa” (p.110). Ma anche quello di un nuovo abbinamento tra approvazione parlamentare e successiva ratifica referendaria (tranne nei casi di maggioranza molto larga): un referendum confermativo da tenersi subito dopo la deliberazione parlamentare (p.111). Fino al ripristino del meccanismo del sorteggio (proprio della democrazia ateniese) per le assemblee legislative (in una certa proporzione), specie di ambito locale. Queste proposte (nel capitolo 6, l’ultimo, intitolato “Una democrazia che rivoluzioni se stessa”, pp.103-119), volte a prefigurare un nuovo e più avanzato equilibrio tra rappresentanza e democrazia diretta, sono in realtà la parte meno convincente del libro. Per un semplice motivo: il gioco democratico è formato da due momenti, entrambi irrinunciabili ed entrambi da rafforzare. L’espressione della volontà (il voto), ma anche la formazione dell’opinione (il dibattito pubblico). Rafforzare il primo senza preoccuparsi del secondo significa arrendersi a livelli elevati di irrazionalità o manipolazione. Questo è ancora più vero nella realtà italiana caratterizzata da duopolio televisivo, controllo di larga parte della stampa da interessi forti, scarso pluralismo dei media, assenza di forti standard professionali nel mondo giornalistico, ecc. Il movimento verso la diffusione di momenti di democrazia diretta deve essere accompagnato da ugualmente forti innovazioni nell’infrastruttura comunicativa della società. Serve, insomma, anche un po’ di ingegneria delle infrastrutture comunicative affinché la formazione delle opinioni possa garantire maggiori chances di “razionalità”, ad esempio attraverso forme più stringenti di “filtro” o “lavaggio” delle preferenze tramite l’argomentazione pubblica. Purtroppo su questi aspetti il libro di Schiavone non dice nulla. Esso va dunque integrato con le riflessioni più sofisticate in merito alla “democrazia deliberativa”. Anche con questo limite, tuttavia, esso aiuta a percepire che si sta aprendo una nuova fase per la democrazia nei paesi occidentali. Nuove opportunità sono all’orizzonte. Bisogna però attrezzarsi per saperle cogliere. Il libro è un buon punto di partenza.
bellissimo articolo , complimenti Andrea, il concetto mio di democrazia è che si fonda sul potere della minoranza , maggiore è la forza della minoranza e maggiore è la democrazia , purtroppo quando si ascolta e si legge da rappresentanti di cittadini che i “grillini” in questo caso ,ma varrebbe per qualsiasi opposizione , confondono la democrazia rappresentativa con la democrazia partecipativa sembra di ascoltare lo psiconano quando afferma io ho i voti e faccio quello che voglio , cambio anche la costituzione e il parlamento .
sappiamo benissimo tutti come è evoluta la nostra provincia dal dopoguerra e purtroppo come si sono saldati i rapporti fra economia , politica e cittadini , fin dal rendere ininfluente il voto se non come rituale quinquennale nel quale si elegge un sindaco senza neppure conoscere la sua persona.
e’ finito un tempo , quello della delega , come cita il libro , e se ti ricordi , già 1 anno fa nel primo o secondo articolo mio pubblicato sul tuo blog si parlava della impossibilità ora di delegare per i cittadini pena la salute di tutti .
purtroppo il modello dello psiconano è stato assimilato e fatto proprio da quella che doveva essere l’opposizione, che ha recitato un ruolo speculare di appropriazione ed utilizzo degli elettori separando la società elettiva da quella eleggente ,il solco in pratica che divide cittadini e rappresentanti tra l’altro pagati dai cittadini ,ed in quel solco è proliferato il malaffare istituzionale a tutti i livelli , anche i più bassi .
in pratica si è creato un circuito di “leggi illegali” nel quale ogni rappresentante cerca di utilizzarle per propri fini in linea con un pensiero dominante e non con la finalità della legge , ed ognuno ha la responsabilità poi di impedire nel proprio orticello qualsiasi dialettica ad esempio referendaria .