Che le elezioni politiche 2013 siano state uno “sconquasso” per il sistema politico italiano non è sfuggito a nessuno. Come sempre, però, alcune cose si apprezzano meglio se collocate in prospettiva temporale e se guardate in modo distaccato. Qui vorrei appunto richiamare le cose che mi hanno più colpito, emerse da un convegno organizzato oggi dal Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna su “risultati e prospettive” del voto (con interventi di Aldo Di Virgilio, Filippo Tronconi, Carlo Guarnieri, Gianfranco Baldini, Piero Ignazi, Roberto Cartocci). E rintracciate sulla stampa e sui social network in questi giorni.

Piero Ignazi e Roberto Cartocci al seminario odierno su “Italia al voto, elezioni 2013: risultati e prospettive” (foto del 5 marzo 2013)
[1] Se guardiamo ai dati elettorali colpiscono due cose. Innanzitutto la fuoriuscita da uno schema “bipolare” (fortissimo nel 2006) e l’approdo ad uno multipolare: oggi i poli sono 4, di cui 3 sostanzialmente delle stesse dimensioni (centrosinistra, centrodestra, M5S).

Voti alle coalizioni nelle elezioni politiche 2006, 2008 e 2013. Risulta evidente la de-strutturazione del bipolarismo (adattamento da un grafico di Aldo Di Virgilio)
Questo rapido cambiamento ha all’origine una elevatissima volatilità elettorale. Circa 16 milioni di elettori hanno cambiato lista nel passaggio tra 2008 e 2013. Il centrodesta perde circa metà dei propri elettori. Il centrosinistra circa il 30%. Il M5S ottiene 8,6 milioni di elettori (25,5% alla Camera) la prima volta che si presenta. Questa profonda trasformazione è evidenziata dal grafico seguente (tratto dalla relazione di Aldo Di Virgilio). Come abbiamo già osservato (vedi) i due “poli” tradizionali (centrodestra e centrosinistra) subiscono entrambi una fortissima erosione (un po’ meno quello di centrosinistra, centrato sul PD).
Le elezioni politiche 2013 ci consegnano una differente geografia elettorale. Non solo il M5S è il primo partito (alla Camera), ma risulta il primo partito in 50 province su 108. Il PD è invece il primo partito in 40 province. Il PDL in solo 17. La Lega Nord in 1 soltanto (dati elaborati da Ilvo Diamanti e presentati su la Repubblica del 27 febbraio 2013: pdf). La cartina seguente evidenzia, provincia per provincia, la coalizione vincente. Sicilia, Sardegna, Liguria, Marche, Abruzzo: qui si trovano le province in cui il M5S ottiene più voti rispetto alle altre coalizioni. Ma se guardiamo al voto dei singoli partiti (non coalizione) l’area colorata di giallo si estende a Piemonte, Veneto, Friuli. Mentre il M5S sale, PDL, Lega Nord e PD “smontano” (Diamanti parla della “riSmonta” del PD; cfr. la Repubblica del 4 marzo 2013: pdf).

Indicazione, provincia per provincia, della coalizione che ottiene più voti alla Camera. Rosso = centrosinistra; Blu = centrodestra; Giallo = M5S (fonte: wired.it).
L’analisi dei flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo di Bologna su 9 grandi città evidenzia che il M5S prende voti da tutti i partiti. Nelle città rosse (Bologna, Firenze Ancona, Torino, a cui si aggiunge Napoli) ottiene il voto da molti elettori che nel 2008 avevano votato PD. Nelle città del Sud conquista elettori dal PDL (Reggio Calabria, Catania). Nelle città del Nord sottrae elettori alla Lega Nord (Brescia, Padova). Lo ha ribadito Filippo Tronconi.

Rappresentazione, in 9 città, della provenienza dell’elettorato M5S (partito che gli elettori 2013 del M5S avevano votato nel 2008) (slide di Filippo Tronconi)
[2] La legge elettorale funziona da “traduttore”: trasforma i voti in seggi. Anche su questo fronte cambia la performance del Porcellum. Per la prima volta si registra un fortissimo effetto di “di sproporzionalità”. La coalizione di centrosinistra ottiene il 54,7% dei seggi alla Camera con solo il 29,5% dei voti. Tutti gli altri vengono fortemente penalizzati ed ottengono una percentuale di seggi assai inferiore alla percentuale di voti conquistata. Il centrosinistra si trova dunque nella situazione di non avere la maggioranza al senato, da un lato, e dall’altro di averla alla camera solo per il grandissimo premio di maggioranza ottenuto (per il fatto di avere conquistato “solo” 120mila voti in più rispetto al centrodestra – lo 0,3%).

La trasformazione dei voti in seggi alla Camera nelle elezioni politiche 2006, 2008 e 2013. Colpisce l’effetto disproporzionale nel 2013: il centrosinistra con il 29,5% dei voti ottiene il 54,7% dei seggi (slide di Aldo Di Virgilio)
[3] A fronte di questo risultato “catastrofico” (se confrontato con le aspettative di vittoria che aveva) nel PD si è aperta la discussione sul che fare. Il partito, in verità, sembra sull’orlo di una crisi di nervi. E’ partita, in modo scomposto peraltro, la campagna contro il M5S, con mobilitazione di militanti ed iscritti. Ci sono iscritti al PD che invitano a firmare una petizione indirizzata al leader di un altro “partito” (Beppe Grillo). E su facebook è iniziato a circolare materiale di “attacco” al M5S – peccato che sia privo di fondamento. Ad esempio si stigmatizza il fatto che fratello e sorella siano entrambe impegnati politicamente per Beppe Grillo (uno in consiglio comunale, l’altra in parlamento!). Si tratterebbe di “familismo”. In realtà non v’è nulla da biasimare in questo (dove starebbe il vulnus?). E altri “attacchi” del genere (di nuovo i 300 spartani di Bersani all’opera? vedi). Le ragioni per criticare il M5S ci sono tutte, e sono reali. Non c’é dunque bisogno di inventarsi temi ed argomenti insussistenti. Allo stesso tempo è stata organizzata una campagna in difesa del segretario Bersani (lo smacchiatore di giaguari), con appelli, petizioni, ecc. Mentre Bersani ha scelto in modo irrevocabile la linea: il PD proporrà al M5S di sostenere un governo Bersani, un “governo-di-scopo” per fare poche cose essenziali (invece nessuna disponibilità ad accordarsi con il centrodestra di Berlusconi). E’ evidente che si sta giocando una duplice partita: una verso il paese, l’altra verso il partito. Da un lato si deve provare a dare un governo al paese. Per questo è giusto che il primo tentativo lo faccia Bersani (anche se l’assegnazione dell’incarico spetterà comunque al Presidente della Repubblica). Ma se dovesse andargli buca, come è molto probabile, sarebbe opportuno (sempre per il bene del paese) tentare con un diverso nome. Sempre e solo con la prospettiva di fare poche ed essenziali cose (tra cui, magari, una riforma elettorale – difficile, però, farla senza coinvolgere il centrodestra; almeno provarci). E poi tornare a votare. Plausibilmente in autunno. Dall’altro lato, però, c’é una devastante questione di linea politica, sconfessata dall’esito elettorale. C’è una parte del partito che per salvare la linea bersaniana (del partito fortemente strutturato – sì sezioni, no gazebo, per intenderci; della linea “socialdemocratica”; dell’usato sicuro), uscita malconcia dalle elezioni (ricordiamo che il PD di Veltroni ottenne il 33,2% nel 2008 e che da allora si sono persi 3,5 milioni di elettori!) vorrebbe legare le chances di dare un governo al paese solo al nome di Bersani. Lo slogan è: o Bersani o il voto. Poiché un nuovo voto senza aver cambiato legge elettorale potrebbe riconsegnarci una situazione di ingovernabilità, sembra una mossa azzardata.

Gianfranco Baldini (in piedi), Aldo Di Virgilio (a sx) e Roberto Cartocci (a dx) al seminario odierno su risultati e prospettive del voto 2013 (foto del 5 marzo 2013)
Forse è bene rendersi conto che non si può sacrificare la situazione del paese alle pur legittime aspirazioni di Bersani (che pure ha fatto tutto lui: ha guidato la macchina ed è andato a sbattere) o alla difesa di una posizione interna al PD. Per quello che posso comprendere oggi mi sembra assai improbabile che Bersani riesca a formare un governo (se intende non avvalersi dei voti del centrodestra – mettendo in campo una “grande coalizione” all’italiana). Ma la strada dello scioglimento delle camere non sarà né rapida (bisognerà comunque aspettare l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica; prima c’è il “semestre bianco”), né è detto che nuove elezioni (con questa legge elettorale) siano in grado di produrre una maggioranza anche al Senato. Forse il PD ha qualche chances di formare un governo se rinuncia a Bersani come presidente del consiglio. D’altro canto per tutta la campagna elettorale egli ha rimarcato il fatto che il suo nome non era riportato nel simbolo elettorale. Dovrebbe dunque venirgli più facile, no? In ogni caso, anche se si dovesse tornare a votare nel giro di pochi mesi, il PD pensa davvero di ripresentarsi con Bersani leader?
PS Sul tema le considerazioni più lucide, a mio modo di vedere, sono negli editoriali di Stefano Folli (Il Sole 24 Ore di oggi, 5 marzo 2013: pdf) e di Stefano Menichini (Europa, 5 marzo 2013: pdf).
Leggete il primo capitolo all’ultimo libro di Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013:
http://www.einaudi.it/libri/libro/marco-revelli/finale-di-partito/978880621554
Sembra un commento alle elezioni politiche 2013. Invece il libro, uscito a febbraio 2013, è stato chiuso a dicembre 2012. Ma parla di quello che è successo: crollo del PDL ed ancor più della Lega Nord; il PD che perde circa il 25% dei voti; M5S che fa “boom”. E’ in realtà il commento alle amministrative 2012. Ma quel “canone” si è ripetuto neppure un anno dopo. Cogliendo di sorpresa (sic!) il PD ed il centrosinistra. Eppure son segnali visibili da tempo!
Cos’é che non va nel PD lo spiega, tra gli altri, Salvatore Vassallo: non è solo questione di comunicazione (in questi giorni, apro una postilla, ho trovato su facebook qualcuno che proponeva di non pagare l’agenzia che ha curato la campagna di comunicazione del PD! Dei due meglio “licenziare” il committente!), ma di disegno organizzativo, leadership, linea politica:
http://www.bodem.it/italia/57-tutta-colpa-dei-comunicatori
Interessante anche il post di Salvatore Vassallo su “Come uscire dal pantano”:
http://www.bodem.it/italia/58-come-uscire-dal-pantano
Dove si prospetta un “governo istituzionale, del presidente” a patto che sia in grado di fare due cose: superare il bicameralismo perfetto e darsi una nuova legge elettorale. Poi al voto.
Roberto D’Alimonte, politologo, evidenzia che al di là del “boom” del Movimento 5 Stelle (primo partito alla Camera dei deputati), il vero problema del centrosinistra si è manifestato al Senato, dove ha perso in regioni che erano date per sicure (e non arrivando prima, la coalizione non ha avuto il premio di maggioranza). Così Campania e Puglia hanno fatto perdere il PD:
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=1TM8MI
Luca Ricolfi, invece, analizza criticamente gli “8 punti” della proposta che Bersani intende fare al M5S, per cercare di ottenere sostegno ad un proprio governo. “Più li leggi … più ti accorgi che nei dirigenti del PD nulla, ma proprio nulla è cambiato dopo il voto”:
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=1TM813
Ulteriori spunti di riflessione.