Da un po’ di tempo c’è fermento nel campo della teoria della democrazia. Si è ridotta la presa della concezione egemone, quella che identifica la democrazia con la “democrazia rappresentativa” e quest’ultima semplicemente con la competizione elettorale tra partiti, limitando la partecipazione dei cittadini essenzialmente all’elezione dei propri rappresentanti (essendo questi chiamati a fare le leggi). Sono infatti emerse e cresciute altre concezioni, identificate da espressioni quali “democrazia partecipativa” e “democrazia deliberativa” – espressioni che richiamano l’attenzione su aspetti del processo democratico in precedenza trascurati. Queste innovazioni teoriche stanno lentamente alimentando un certo numero di “sperimentazioni” (il “bilancio partecipativo” di Porto Alegre è il caso più significativo). Si tratta di esperienze sino ad oggi decisamente minoritarie, marginali, anche confuse. Ma questo fermento segnala l’insoddisfazione per una concezione di democrazia ritenuta troppo striminzita e testimonia della ricerca di nuove configurazioni. La crisi economica in atto ha messo in discussione l’egemonia liberista in economia. Qualcosa di analogo si registra sul fronte politico. Anche in questo ambito è oggi necessario chiedersi se davvero questa democrazia rappresentativa sia l’unica modalità di implementazione della democrazia o se, invece, questa supposta esclusività non sia ideologia. Nulla di meglio, per introdurre il tema, che una canzone di Giorgio Gaber, da lui magnificamente interpretata: Le elezioni (1976). Una condensazione malinconica di quella concezione della democrazia rappresentativa che vorrebbe lasciare all’elettore solo il potere di fare una croce sulla scheda elettorale e, magari, di … rubare la matita dalla cabina elettorale come sotterranea espressione di “protesta” nei confronti del sistema.
Siamo dunque in una fase di “scongelamento” di idee da lungo tempo cristallizzate e date per scontate. Certo è che se si guarda al campo politico nessuna forza, con l’eccezione di alcuni movimenti e dei partiti della sinistra più radicale, si sta facendo carico del compito di una elaborazione di una nuova visione della democrazia. E’ preoccupante, ad esempio, l’assenza del PD da questo lavoro di elaborazione, tanto a livello nazionale, quanto a livello locale. Qui da noi, anzi, si registra un vero e proprio vuoto di pensiero. Che si traduce in un’assoluta estemporaneità delle proposte di nuove modalità di “partecipazione” dei cittadini. Anche l’amministrazione Denti comprende che il tema va di moda e che, dunque, bisogna far vedere che “si fa qualcosa”, così da guadagnarsi almeno qualche titolo sulla stampa locale (vedi). Ma non ha la capacità di proporre nulla di più di quanto Yves Sintomer ha definito, nel corso di una recente conferenza alla Fondazione Collegio San Carlo di Modena (per un estratto: vedi), “ascolto selettivo”: gli eletti ascoltano i cittadini e poi decidono quello che vogliono senza seguire una regola e senza neppure dover giustificare la decisione presa. E’ lo schema che, a Vignola, abbiamo visto all’opera in “Via della partecipazione” (vedi), nel coinvolgimento dei cittadini per la progettazione del parco di Via di Mezzo (vedi), nella consultazione dei cittadini (sic) tramite questionario sul bilancio comunale (vedi) e così via. Vuoto di idee: è la descrizione più appropriata di questa performance! Eppure il tema dell’innesto di istituti partecipativi o deliberativi nel corpo un po’ esangue della democrazia rappresentativa è di grande importanza secondo un numero crescente di studiosi della democrazia. Occorre dunque provare ad elaborarne una visione compiuta, cercando di “mettere un po’ d’ordine” anche nella disordinata casistica delle sperimentazioni – tra queste anche la proposta de “La parola ai cittadini” (vedi) , avanzata da Vignola Cambia (utile perché richiama l’attenzione sul fatto che un ruolo diverso dei cittadini è possibile). Se si tratta di riconfigurare l’edificio della democrazia, anche a livello locale, conviene partire da un tentativo di chiarimento sui fondamenti.
[1] Che nelle società moderne la democrazia non possa che essere una “democrazia rappresentativa” è da tempo un assunto incontestato. Dato per scontato. Tanto che la democrazia stessa viene ad essere identificata con l’elezione dei rappresentanti al parlamento (o del capo dell’esecutivo). Dove si tengono regolarmente elezioni (in cui competono più forze politiche) là vi è democrazia. Si tratta però di una concezione davvero striminzita e per certi versi singolare. I pensatori che hanno fornito le idee per l’adozione della democrazia verso la fine del XVIII secolo non erano affatto concordi sull’abbinamento di democrazia e rappresentanza. Per Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, l’elezione di rappresentanti non realizza la democrazia, se con questo termine intendiamo il governo del popolo. “La sovranità non può venir rappresentata” scrive ne Il contratto sociale (libro III, cap. XV). L’espressione “democrazia rappresentativa” sarebbe dunque un ossimoro. Spiega Rousseau: “Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento; appena avvenuta l’elezione è schiavo; è niente. Nei suoi brevi momenti di libertà ne fa un uso per cui merita senz’altro di perderla.” Insomma, “nel momento in cui si dà dei rappresentanti, un popolo non è più libero”. Recuperare la concezione “repubblicana” che dalla Roma antica giunge fino a noi, passando per Machiavelli, Rousseau e Mazzini (vedi) è di fondamentale importanza, anche solo per il fatto che tiene aperto l’interrogativo: basta davvero dare ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti (o di scegliere il proprio governo) per ottenere una democrazia? Ai più la risposta pare scontata: sì. E che altro servirebbe? Ma forse è ora di rimettere in discussione questa concezione sino ad ora egemonica, ma sempre più spesso sfidata da concezioni più esigenti. Ecco, è importante non dare per scontata la risposta. Che in effetti scontata non è. Accomodarsi troppo facilmente sull’ideologia della “democrazia rappresentativa” (come scelta delle élites di governo tramite il voto) – è questo che oggi va contrastato. Pena la rinuncia (frettolosa) al concetto di “sovranità popolare” ed ai concetti interrelati di uguaglianza politica e di auto-legislazione. Possiamo rinunciarvi a cuor leggero? (Un’interpretazione procedurale e discorsiva della sovranità popolare, non concretistica come in Rousseau, è sviluppata da Jürgen Habermas: vedi).
[2] Il discorso diventa forse più chiaro se ci spostiamo sul fronte contrapposto, quello della concezione egemone della democrazia rappresentativa. La vulgata della teoria della democrazia per lunga parte del XX secolo ha identificato la democrazia con l’elezione dei governanti (in un contesto multipartitico, ovvero competitivo). Sono questi ultimi che, a maggioranza, fanno le leggi. La versione più nota di questa concezione è stata elaborata da Joseph A. Schumpeter con la sua teoria “competitiva” della democrazia (vedi), fatta propria, in Italia, da Giovanni Sartori e Gianfranco Pasquino. Secondo questa concezione la democrazia è un metodo per dare il potere di prendere decisioni politiche ad un gruppo ristretto di individui (rappresentanti), attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare. Insomma, i cittadini eleggono i rappresentanti (o scelgono un governo) e questi decidono, ovvero fanno le leggi. Quello che per Rousseau era un orrore – dal punto di vista della concezione della democrazia – per Schumpeter è l’unico modo possibile di intendere la democrazia nelle società contemporanee (diversissime per dimensioni ed eterogeneità dalla polis greca). Schumpeter rinuncia senza rimpianti all’idea di sovranità popolare – per lui si tratta di ideologia. La democrazia non è “governo del popolo” in quanto ciò non è possibile (lo sarebbe solo se le decisioni politiche fossero prese in seguito a dibattiti alla presenza di tutto il popolo, ma nei grandi stati questo è irrealizzabile) e neppure conveniente (la maggior parte dei cittadini è privo di un adeguate conoscenze per decidere, in molti ambiti non sa esattamente cosa vuole ed è facilmente manipolabile). Il “motore” della democrazia, secondo questa teoria “competitiva”, è costituito dalla “lotta di concorrenza per il potere” delle élites. Basta questa competizione a garantire il ricambio dei governanti e l’allineamento delle politiche alle “preferenze” dei cittadini. La democrazia – questo è un punto decisivo – non necessita di cittadini civicamente virtuosi (interessati e competenti). Anzi, un certo livello di apatia non guasta. L’azione del governo deve infatti essere schermata rispetto ai continui tentativi di interferenza dei cittadini e questi debbono essere invitati a “partecipare” solo in occasione delle elezioni, quando sono chiamati ad eleggere i propri rappresentanti. Al di fuori del momento elettorale la sua partecipazione è ritenuta nociva! “Gli elettori devono rispettare la divisione del lavoro fra sé e gli uomini politici che eleggono. Non devono ritirare troppo facilmente la propria fiducia nell’intervallo fra un’elezione e l’altra, e devono capire che, dal momento in cui hanno eletto qualcuno, l’azione politica spetta a lui, non a loro. Ciò significa che devono astenersi dall’istruirlo sul da farsi” (Schumpeter J.A., Capitalismo, socialismo, democrazia, ed.orig. 1942, cap. XXIII, par.2). Quando i governanti o gli amministratori locali invitano a “non disturbare il manovratore” riecheggiano questa concezione schumpeteriana secondo cui la democrazia non è altro che elezioni periodiche ed élites in competizione – ed una volta scelto il governo, il cittadino non deve far altro che aspettare il successivo turno elettorale! Poco importa la rinuncia all’idea della “sovranità popolare”. Poco importa la rinuncia all’idea di auto-legislazione. Poco importa l’introduzione nella società di una disuguaglianza di potere (tra rappresentanti e cittadini) a ben vedere non tollerabile. In realtà, la concezione “competitiva” della democrazia di Schumpeter non può essere accettata (anche se periodicamente qualche governante od amministratore la vorrebbe promuovere – sai che pacchia cittadini che accettano passivamente le decisioni di chi li amministra in attesa delle successive elezioni?) sia per ragioni normative (chiede un sacrificio inaccettabile in termini di diritti politici), sia per ragioni empiriche (in realtà la democrazia funziona diversamente – la cifra della moderna democrazia rappresentativa è semmai l’influenza opaca di gruppi di interesse, più che la pressione trasparente di gruppi di cittadini: vedi). Ed in effetti altri autori propongono visioni più sofisticate della “democrazia rappresentativa” rispetto a quella schumpeteriana, sviluppando un’idea di rappresentanza non incentrata sul solo momento elettorale, ma come processo che si articola per l’intero mandato.
(Il ragionamento prosegue in un prossimo post)
Non bisogna prendersi troppo sul serio, a me nel 2009 per le amministrative portò fortuna.
Anzi forse ero stato insultato più dei miei compagni di partito da Vignolaperme, e mi portò fortuna, primo per numero di preferenze per una delle liste che sostiene l’attuale sindaco (anche se debbo dire che in modo scherzoso con Daria ogni tanto a distanza abbiamo avuto qualche battibecco).