Una piccola fiammata polemica su facebook, a metà luglio, sul tema della partecipazione. Scoppiata a seguito di un post di Vignola Cambia a commento delle “passeggiate della partecipazione” in programma a Spilamberto tra il 19 luglio ed il 2 agosto. Che ha impegnato, oltre al sottoscritto ed Eleonora Mariotti, da un lato, Andrea Manzini Minu e Sara Zanni (assessore alla partecipazione a Spilamberto), dall’altro. L’episodio, in sé del tutto marginale, offre lo spunto per cercare di chiarire il cosa ed il come della “partecipazione” (termine a cui dovrei far seguire, ma non lo ripeterò tutte le volte: “dei cittadini alle scelte più importanti della città”). Il fatto è che, per una serie di ragioni (tra cui, bisogna riconoscerlo, anche la decisione del PD di tenere le “primarie” per la scelta dei candidati alle cariche elettive), la partecipazione è oggi di moda (perlomeno assai più rispetto a qualche anno fa). Fa più “moderna” l’amministrazione locale. Ma come sempre succede in queste congiunture il rischio è che a diffondersi sia la “moneta cattiva”, ovvero la “partecipazione” più facile, più ad effetto, quella che consente di dire “l’ho promossa anch’io” (ma che non tocca il modo normale di assumere le decisioni amministrative), quella che punta semplicemente a mobilitare un po’ di gente (terminato la quale, però, tutti si lasciano chiedendosi: “e adesso?”). Che è poi quella che nasce dalla mancanza di un progetto chiaro, in grado cioè di rendere conto del perché fare partecipazione e del come fare una partecipazione “vera” (ovvero informata, con chances reali di incidere sui processi decisionali ed alla cui organizzazione partecipano anche i partecipanti, i cittadini cioè). Insomma, sul tema della partecipazione sarebbe bene provare a fare un po’ di chiarezza. Altrimenti qualche amministratore troppo scaltro potrà sempre dire di aver fatto “partecipazione” perché ha convocato un “incontro partecipato tra amministratori e cittadini” (così il titolo del comunicato stampa n.55/2010 del comune di Vignola). Proviamoci dunque.
[1] Partiamo proprio dall’esperienza spilambertese delle “passeggiate della partecipazione”. Che l’amministrazione comunale di Spilamberto presenta così in un volantino: “Prosegue il lavoro per incentivare la partecipazione dei cittadini alle decisioni dell’Amministrazione, riscoprendo insieme il gusto per le camminate estive per le vie del paese, insieme alla discussione sui temi che occuperanno il lavoro dell’Amministrazione nei prossimi mesi, aprendo il confronto anche alle problematiche che i cittadini vorranno sollevare” (qui il pdf). In pratica si cammina per la città facendo una chiacchierata con il sindaco e qualche assessore. Possiamo chiamarla davvero “partecipazione”? Direi di no. Altrimenti dovrei dire che ogni volta che parlo con un amministratore “faccio partecipazione”. E’ bene invece non fare confusione ed usare correttamente la lingua italiana (un invito che giunge anche da Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, Milano, 2010: vedi). Un richiamo ad un uso più puntuale delle parole va fatto, peraltro, anche al Comune di Castelnuovo Rangone che nella primavera del 2010 ha lanciato la “campagna di ascolto e partecipazione” Ascoltiamoci! In quel caso il sindaco e gli amministratori incontravano i cittadini in 9 incontri tenuti nei bar del paese dove i partecipanti potevano “avanzare proposte, suggerimenti o critiche agli amministratori presenti su tutti gli argomenti di pubblico interesse” (vedi). A scanso di equivoci vorrei dire che queste modalità di rapporto tra amministratori e cittadini sono positive, specie oggi in cui bisogna contrastare il sentimento di una lontananza della politica dalla vita quotidiana dei cittadini. Ma per denominare queste esperienze, termini come “ascolto” (usato giustamente per il titolo dell’iniziativa dall’amministrazione comunale di Castelnuovo) o “confronto” o “incontro” o “dialogo” sono assai più pertinenti. Non è opportuno giocare sull’equivoco che la partecipazione ad un’iniziativa promossa dall’amministrazione fa automaticamente “partecipazione” (dei cittadini alle scelte più importanti della città). Fare un’osservazione, invitare a prestare attenzione ad un problema, suggerire una soluzione nel corso di una conversazione con un amministratore non è “fare partecipazione”. Che in questo equivoco cada un normale cittadino ci può stare. Che ci cada (o, peggio, lo promuova) un amministratore è invece il segno della inconsistenza della cultura politica che troppo spesso oggi contraddistingue amministratori e politici, anche di sinistra (vedi). Io stesso nel 2005 (allora ero capogruppo DS in consiglio comunale a Vignola) ho promosso le “camminate di quartiere” in tre quartieri cittadini, invitando i cittadini interessati a camminare e dialogare con amministratori e consiglieri comunali, ma non mi sono sognato di chiamarla “partecipazione” (vedi).
[2] Evitiamo dunque di manomettere la parola partecipazione. Specie se, come ho specificato in premessa, vogliamo parlare della “partecipazione dei cittadini alle scelte più importanti della città”. E per non manometterla c’è bisogno di un po’ di lavoro di chiarificazione. Ed è un lavoro che va fatto con grande cura perché, come si suol dire, il diavolo sta nei dettagli. D’altro canto è oramai la stessa cosa per la parola “democrazia”. Oggi siamo tutti democratici. Pure Berlusconi. Ma poi si scopre che il presidente del consiglio controlla, direttamente o indirettamente,le principali TV del paese. Che non ha affrontato e tantomeno risolto il suo conflitto d’interessi. E che i parlamentari, con questo sistema elettorale, rispondono non a chi li ha eletti, ma a chi li ha messi in lista. E così via. E questi sono dettagli che fanno la differenza. Lo stesso vale per la “partecipazione”. Chi, oggi, si dichiara contrario alla partecipazione? Nessuno. Proprio per questo, però, i cittadini che sono interessati alla partecipazione “vera” debbono richiedere una precisazione dei requisiti. La parola da sola – “partecipazione” – è troppo generica e si presta, come abbiamo visto, al gioco degli equivoci. Non deve più bastare il semplice sventolare la parola partecipazione. E nemmeno rendere tutto “partecipato”: l’incontro “partecipato”, la camminata “partecipata” e così via. Chi fa queste cose sta vendendo fumo (vedi). Occorre invece una sorta di “etichetta”, di “certificato”, di “garanzia”. Occorre la precisazione del chi, del quando, del perché e del come della partecipazione. Altrimenti la tendenza della politica d’oggi di piazzare i prodotti di minore qualità prenderà il sopravvento (per essere chiari: altrimenti prevarrà la tendenza a fare le “camminate della partecipazione”, assolutamente innocue, ed a non fare, invece, i percorsi di partecipazione vera quando si devono prendere le decisioni importantissime sul PSC: vedi). Bisogna iniziare a pretendere, da chi amministra o fa politica, una dichiarazione esplicita degli “ingredienti” della partecipazione che lui propone. A partire dalla domanda cruciale: chi decide? Proprio il successo dei referendum del 12 e 13 giugno dimostra che i cittadini non sono affatto refrattari a riprendersi la delega alle decisioni importanti in precedenza consegnata alla classe politica (vedi). Ma debbono essere chiare le regole del gioco: se io partecipo quali possibilità ho di incidere sulla decisione da assumere? Purtroppo in tantissimi casi queste regole non sono chiarite anche da quelle amministrazioni che pure chiamano alla partecipazione i propri cittadini. E’ per questo che bisogna iniziare a chiedere, ad ogni sindaco o ad ogni assessore alla partecipazione (proliferati negli ultimi anni senza che molto cambiasse, in verità, nel modo di procedere delle amministrazioni) un impegno affinché l’amministrazione locale adotti una vera e propria “carta della partecipazione”, dove sono fornite risposte al perché, quando, chi, come della partecipazione (pur sapendo che non c’è una ricetta unica valida per tutti i processi decisionali).
L’esperienza di questi anni, in effetti, è tutt’altro che entusiasmante. Ogni amministrazione si è inventata le proprie “ricette” di partecipazione, dimostrando, tra l’altro, un impressionante livello di pressapochismo (vedi). A Vignola, solo per fare un esempio, abbiamo visto l’esperienza di via della Partecipazione per via Libertà e via Barella. Ma la decisione dei cittadini di “salvare il più possibile gli alberi” è stata disattesa dall’amministrazione quando si è trattato di intervenire su via Barella (vedi). Su via Libertà, inoltre, una volta terminato il percorso partecipativo (a cui poteva prendere parte chiunque fosse interessato), l’amministrazione comunale ha continuato il confronto solo con alcuni interlocutori (la Confesercenti intervenuta a “difendere” gli interessi di alcuni commercianti della via) contravvenendo il principio di uguaglianza di tutti i cittadini (nonostante la bella citazione a tema, tratta da Aristotele, messa nella home page del sito web comunale). Poi, quando si è trattato di progettare il parco di via di Mezzo della partecipazione dei cittadini si sono dimenticati (e qualcuno gliel’ha dovuto ricordare: vedi). Lo stesso è avvenuto a proposito del documento di pianificazione più importante per il futuro di Vignola, quel PSC che contribuirà a delineare il volto della città e del territorio da qui al 2025 (vedi). Ci sarà la partecipazione dei cittadini? Quando? Con che modalità? Non è dato sapere. Il sindaco Daria Denti ha annunciato l’avvio della conferenza di pianificazione entro l’estate, ma si è ben guardata dal dire ai cittadini vignolesi come pensa di coinvolgerli nel progettare la città del futuro. Con uguale indifferenza il gruppo consiliare PD ha bocciato una proposta dettagliata di impegni per fare una partecipazione vera sul PSC presentata da Vignola Cambia (qui il pdf della mozione discussa nel consiglio comunale dell’8 novembre 2010). Insomma, come ho già avuto occasione di commentare: poche idee e ben confuse (vedi). E, soprattutto, nessun impegno concreto. Nessun impegno reale a chiarire e ad affermare pubblicamente il quando, il chi, il come (ed anche il perché) della partecipazione. In questa legislatura, con questa amministrazione, la partecipazione dei cittadini alle scelte più importanti della città rimarrà una cosa non realizzata. E ciò è davvero singolare. Il PD vorrebbe infatti accreditarsi come il partito in grado di cambiare (in meglio) questo paese. Ma le dichiarazioni non bastano più. Occorre “dimostrare” le proprie idee, testimoniarle nella pratica quotidiana. Possibile che non ci sia un documento – dico uno – che illustri la posizione del PD su come rinnovare la democrazia locale? Possibile che le amministrazioni comunali governate dal PD non sentano fortissimamente l’esigenza di far toccare con mano ai propri cittadini che un modo nuovo di governare è possibile e che questo modo nuovo richiede anche un ruolo attivo dei cittadini, il loro coinvolgimento nelle decisioni più importanti sulla città? Purtroppo oggi è così. Per questo ai cittadini che vogliono essere attivi, che vogliono partecipare alle scelte che riguardano il loro futuro non rimane che contrastare la manomissione della parola partecipazione. Non rimane che dire che non basta la passeggiata o l’incontro al bar per fare “partecipazione”. Non rimane che chiedere il “certificato di garanzia” ogni qualvolta che un amministratore annuncia un’iniziativa “partecipativa”.
Carissimo Andrea,
come sai non è semplice derimere una questione come quella della partecipazione[in]politica visto che questo “fenomeno” non è propriamente recente. Lo potremmo far risalire a tutte quelle forme di governo che ammettevano, pur in numero limitato, coloro che “partecipavano” ai processi decisionali. Sotto molti aspetti, le Polis erano esempi di partecipazione. Carlo Galli, il 14 giugno u.s., all’interno della sezione “Rubriche” di Repubblica, scrive: . Cose non dissimili aveva scritto G. Pasquino nel 1997 nel suo “Corso di scienza politica”(credo che a te attento osservatore non sia sfuggito). …..Era ancora segretario nazionale quando un certo B.Trentin avviò una profonda riflessione su ciò che individuò come “società della Conoscenza” declinandolo con l’altro concetto che è quello della cittadinanza. Il sapere e la conoscenza per intervenire su ciò che interessa e preme. Sono riflessioni e percorsi che individuano il concetto del governo diffuso a cui non ci si arriva nè per legge(in alcuni casi certamente necessaria) nè spontaneamente. Da una parte, mi vien da dire, bisogna fermamente crederci, dall’altra deve essere un valore”intimo”. Bisogna averlo dentro, sentirlo come ogni cosa che si reputa vitale. Visto che viviamo in una democrazia delegata, assumono rilievo il ruolo dei corpi intermedi della società. A questo proposito sai bene che stiamo attraversando un periodo ove questi soggetti sono come calcificati e non di rado i primi ad impedire il ricambio sociale. Forse non è un caso che ad una sempre più forte domanda di partecipazione, c’è chi ne lamenta un eccesso. I silenzi e gli ostruzionismi rappresentano un grave vulnus che altri non è[sembra essere] il voler sfuggire a qualsivoglia controllo democratico. Eppure dovrebbe essere questo se non “il”, uno dei percorsi da intraprendere perchè si riacquisti fiducia nella politica. D’altro canto dovrebbe sapere chi amministra e/o pratica la politica che rivisitare la “cittadinanza” sta diventando sempre più una esigenza non rinviabile. Un segnale forte(come tu dici e condivido) è stata la partecipazione ai referendum(istituto di democrazia diretta) che rischia, però, di rimanere un caso isolato e non proporre una riflessione seria su ciò che è o dovrebbe essere soggettivo e ciò che è o dovrebbe essere generale. Oggi è quasi tutto delegato ai corpi intermedi(partiti, associazioni ecc)……. ecco bisognerebbe, forse, iniziare a riformarli sul serio.
Ciao Unicode, condivido le tue osservazioni. Il dato di fatto da cui partiamo è questo: la maggioranza degli osservatori e studiosi della politica testimoniano la difficoltà delle democrazie rappresentative che soffrono di tre problemi tra loro connessi: scarse performance (in Italia, poi …), autoreferenzialità della politica, disaffezione e disinteresse dei cittadini. Sono fenomeni che troviamo nel sistema politico nazionale, ma anche a livello locale (magari con un differente mix). Molti di questi studiosi (da Nadia Urbinati a Geffrey Stoker, da Pierre Rosanvallon a Jurgen Habermas) suggeriscono non di passare ad una improbabile democrazia diretta, ma di innestare istituti di democrazia diretta nel corpo un po’ esangue delle nostre democrazie rappresentative. A ciò aggiungiamo che anche a seguito della crescita dei livelli di scolarizzazione ed al venir meno del tradizionale atteggiamento di deferenza verso le autorità costituite un numero maggiore di cittadini vuole “impicciarsi” dell’amministrazione della propria città e dunque di quelle decisioni che influenzano la propria vita. Risposte del tipo “non disturbate il manovratore” non sono più accettate. Esigenze del “sistema” e richieste dei cittadini convergono dunque nel rafforzare gli istituti di democrazia diretta (referendum) ed istituti di partecipazione. Ed il livello locale si presterebbe assai ben per realizzare nuove forme di partecipazione. Occorre osservare che anche all’interno del PD c’è ampia condivisione su questa diagnosi e questa “terapia”. Solo che si fa fatica a passare alla pratica (evidentemente manca anche la volontà …). Manca innanzitutto un dibattito vero sul tema (a livello locale poi non parliamone …) e quindi l’assunzione esplicita di un programma (qualcuno conosce un documento del PD che dice come vorrebbe la democrazia locale?). Abbiamo qualche idea per aggiornare la democrazia locale? C’è una qualche proposta da parte del principale partito di opposizione (a livello nazionale) e tradizionale forza di governo in Emilia-Romagna, in provincia di Modena, a Vignola? No, non c’é. Per cui le esperienze di “partecipazione” si riducono a qualcosa di assolutamente irrilevante al fine dei reali processi decisionali. In fondo basta quel po’ per onorare la moda del momento, meglio se sufficientemente originale per andar sui giornali e per non incidere più del dovuto sulla solita prassi decisionale (si decide in pochi, pochissimi; si lavora affinché la decisione assunta sia fatta propria dall’intero partito e dall’intera maggioranza; si ufficializza la decisione presa). Dunque le nostra esperienze di “partecipazione” o sono appunto irrilevanti (come le “passeggiate della partecipazione” o l’ascolto al bar), o sono “piegate” alla volontà dell’amministrazione (vedi Via della Partecipazione: via Barella), o sono evitate o compresse quando in gioco ci sono interessi importanti (vedi PSC), ecc.
Per chi è interessato ad un libro stimolante (ed in genere poco conosciuto) sull’argomento consiglio quello di Gerry Stoker:
http://www.vitaepensiero.it/volumi/9788834314784
Ciao Andrea
se come tu dici: è evidente che c’è bisogno di qualche cosa che provi a smuovere e a dare coraggio. Cercando di pubblicizzare nel modo più ampio possibile, si potrebbe fare un primo passo creando un “circolo di cittadini” che provano a creare un percorso di costruzione del regolamento sugli istituti di partecipazione. Non ti sfuggirà che l’attuale regolamento del Comune di Vignola è sia datato (1994) sia riduttivo, nel senso che regola e regolamenta lo stretto indispensabile [necessario?]. D’altro canto, vista la velocità dei cambiamenti, non sono passati solo 17 anni ma un secolo, da quando è entrato in vigore. E’ quindi necessario, giusto e opportuno rivisitare un istituto che non risponde alle nuove richieste di cittadinanza e rendere così esigibili i principi dello Statuto Comunale. Secondo me si tratta di discutere di procedure per dare efficacia ai processi partecipativi, definirne gli ambiti, i soggetti da coinvolgere e “pesare” quelli deboli (penso p.e. agli extracomunitari), distinguere tra consulte, consultazioni, audizioni, procedimenti di nomine per enti esterni, ecc. ecc., ma soprattutto definire se parliamo di consultare o vincolare, e qual’è il controllo in materia di rispetto del regolamento. Chi lo esegue e se sono previste, perchè no, anche sanzioni per chi non ottempera.
Questo è, secondo me, uno dei tanti percorsi possibili per provare a far ritornare alla politica (mettersi al servizio) i tanti che se ne sono allontanati. Ovviamente bisogna mettere da parte la passeggiata o la chiacchierata al caffè, per fare ciò non c’è bisogno di regolamentare nulla. Basta avere qualche amico/a e passare un pò di tempo: lungo il percorso sole o al bar.