Partecipazione: perché solo fumo e niente arrosto?

In data odierna il sindaco di Vignola, Daria Denti, ed il presidente dell’Unione Terre di Castelli, Francesco Lamandini, hanno annunciato con un comunicato stampa una campagna di “partecipazione” per “condividere” con i cittadini alcune scelte strategiche per il bilancio di previsione 2011. Con un questionario. Un questionario che verrà distribuito ai cittadini dei comuni dell’Unione Terre di Castelli. Due giorni fa i quotidiani bolognesi hanno riportato la proposta del candidato alle primarie Virginio Merola in tema di partecipazione: “Pensiamo a una forma di democrazia deliberativa: il sabato e la domenica un campione di bolognesi si esprimeranno sui nodi fondamentali dell’amministrazione.” Due proposte completamente diverse. Due proposte entrambe provenienti dal PD. Due proposte che testimoniano della fragilità culturale di questo partito in tema di partecipazione dei cittadini al governo della città. Vorrei provare a dire perché.

Si esprime un'opinione, un voto, ma prima ci deve essere discussione, dibattito (nella foto, del 14 dicembre 2009, un momento dell'iniziativa "La parola ai cittadini" organizzata dalle liste civiche Vignola Cambia e Città di Vignola)

[1] “Dal 21 dicembre al 5 gennaio verrà distribuito un questionario che interrogherà i cittadini in merito ad alcune scelte di indirizzo che l’amministrazione vuole condividere nella stesura del bilancio 2011. Una lista di domande a risposta multipla in cui il comune chiede alla cittadinanza di esprimersi in merito alle priorità individuate e alle proposte messe in campo, nonché in merito ad alcune scelte strategiche future per il territorio. Le domande spazieranno dal trasporto pubblico locale al sociale, dall’istruzione alla sicurezza, dalla cultura allo sviluppo del territorio.” Così recita il comunicato stampa n.181 del 15 dicembre 2010 del comune di Vignola (vedi pdf). Che subito aggiunge che l’indagine non ha “ambizioni statistiche” (sic) “ma sicuramente il desiderio di condividere con i nostri cittadini le difficoltà di bilancio che tutti gli enti locali oggi affrontano”. Partiamo da qui per una prima osservazione. (1.1) E’ solo di fronte alle difficoltà di bilancio che si pensa di fare qualcosa in termini di “partecipazione” per condividere una scelta impegnativa. Si deve decidere dove tagliare. Fino a quando si decideva dove incrementare le risorse il coinvolgimento dei cittadini era ritenuto superfluo. Questa in effetti è la principale motivazione per cui ci si è inventati questa singolare “partecipazione” dei cittadini. Dovendo effettuare dei tagli che scontenteranno varie categorie, l’amministrazione comunale intende perlomeno ripararsi dientro all’affermazione: ma questo è stato “condiviso” (sic) con i cittadini! E’ una impostazione che dice già tutto sulla solidità delle convinzioni “partecipative” di questa amministrazione. Ma ci sono altre tre considerazioni che meritano di essere fatte. (1.2) La seconda considerazione chiama in causa la credibilità del proponente: l’amministrazione comunale di Vignola. Che ha già sperimentato un precedente percorso “partecipativo” con esiti a dir poco insoddisfacenti: si tratta di Via della Partecipazione (vedi). In quell’occasione i cittadini hanno dato quattro “indirizzi” (o linee guida). Una delle quattro indicazioni è stata palesemente violata (diceva, infatti: “salviamo il più possibile gli alberi”, ed in effetti in via Barella tutti gli alberi sono stati abbattuti!). Un’altra indicazione prescriveva “manutenzione, manutenzione, manutenzione” con riferimento agli alberi in città. In questo caso dopo un anno non è stato fatto assolutamente nulla. I cittadini hanno dunque già potuto verificare come questa amministrazione intende la partecipazione: dite quello che vi pare, alla fine decideremo comunque noi. Difficile pensare che in questa nuova occasione, con quesiti decisamente più complessi, le cose possano andare diversamente.

Le opinioni si formano e si perfezionano nel dibattito. Altrimenti rimangono non-opinion (nella foto l'iniziativa sull'acqua pubblica promossa da Vignola Cambia l'11 maggio 2010)

(1.3) Ma ipotizziamo per un attimo che l’amministrazione comunale intenda fare le cose seriamente e non semplicemente condurre l’ennesima operazione di marketing: andare sui giornali per “far vedere che si fa partecipazione”. Ha scelto strumento e modalità giuste? C’è da dubitarne. Partiamo dalla “modalità”. C’è da dubitarne per un semplice motivo: non si tratta di un’indagine campionaria. Ovvero non ci si pone alcuna preoccupazione di rappresentatività del campione. Un campione è considerato rappresentativo quando l’insieme dei soggetti che ne fanno parte riproducono le caratteristiche rilevanti dell’universo dei soggetti (ovvero della totalità dei soggetti di cui si vuole conoscere le opinioni). Se un campione è rappresentativo (per età, sesso, livello di istruzione, città di residenza, ecc.) bastano 2.000 unità per ottenere indicazioni delle opinioni relative all’intero universo composto da 300 milioni di cittadini (sono i numeri effettivi delle indagini campionarie, delle survey, condotte negli USA). Se invece il campione non è rappresentativo posso anche intervistare il 50% del target (una soglia che non verrà certamente raggiunta dall’indagine comunale) senza avere la certezza che le opinioni così ottenute risultino “rappresentative” della totalità della popolazione. Posso cioè ottenere risposte fuorvianti, ovvero non coerenti con le opinioni della popolazione complessiva. E’ la lezione che gli americani impararono nel corso della capagna per le elezioni presidenziali del 1936 quando un sondaggio Gallup su 3.000 elettori risultò più preciso del sondaggio di una delle più importanti riviste del periodo, il Literary Digest, che inviò 10 milioni di questionari ai propri lettori, ottenendone compilati 2,3 milioni. I 3.000 questionari di Gallup furono più precisi nel rilevare l’opinione degli americani (Gallup predisse così correttamente la vittoria del democratico Roosvelt) rispetto ai 2,3 milioni di questionari del Literary Digest (che pronosticò, sbagliando, la vittoria del repubblicano Landon) per un semplice motivo: era basato su corrette tecniche di campionamento. Dunque se l’amministrazione comunale (e l’Unione) intendesse davvero capire cosa pensa l’insieme dei circa 20.000 cittadini adulti di Vignola farebbe bene a promuovere un’indagine su 500 di questi, a condizione che questi 500 costituiscano un campione rappresentativo. L’indagine annunciata, invece, non sarà assolutamente rappresentativa, sia perché manca un piano di campionamento, sia perché le modalità di distribuzione risultano casuali: ogni amministrazione comunale procederà alla distribuzione ed al ritiro dei questionari a modo proprio, con una o più di queste modalità: sito web, banchetti, presso gli URP, ecc.! (1.4) Ma c’è una quarta osservazione da fare e che, probabilmente, è la più importante. E riguarda l’uso dello strumento. E’ davvero adeguato un questionario per l’obiettivo che l’amministrazione si pone, ovvero “condividere alcune scelte strategiche per il bilancio 2011”? A me sembra proprio di no. Decenni di ricerche sugli opinion polls hanno messo in luce che un questionario risulta efficace solo quando rileva opinioni in merito a fenomeni che l’intervistato conosce sufficientemente bene (sia come tema in sé, che come implicazioni). Se così non è le opinioni sono “vuote” o fluide. Un conto è chiedere i gusti alimentari preferiti, i consumi effettuati, le scelte politiche, la “percezione” dei problemi della città (traffico? insicurezza? alti prezzi degli affitti? difficoltà a trovare lavoro?). Un conto è chiedere orientamenti o indicazioni per impostare un bilancio: tagliamo il trasporto scolastico? per tutti? solo per gli stranieri? solo per la scuola dell’infanzia? e se fossero implicati diritti? e quali saranno le conseguenze sugli utenti e le loro famiglie? O le alternative proposte sono banali (ma allora l’indagine risulta ridondante) o altrimenti non è affatto detto che chi esprime l’opinione si sia preso la briga di raccogliere informazioni e di analizzare le implicazioni. Una cosa che è ancora più vera quando le opinioni sono rilevate in assenza di dibattito (che in effetti in questo caso non c’è). Questioni del genere sono state sollevate per la prima volta da Herbert Blumer, sociologo, nel 1948, nel saggio Public Opinion and Public Opinion Polling. E da allora sul tema è stata prodotta una copiosa letteratura (che vede ora anche qualche libro disponibile in italiano). Possibile che nelle politiche “partecipative” che promuovono amministratori del PD non ci sia neppure un’eco di più di 60 anni di riflessione ed analisi sul tema? La risposta è per me evidente. E’ che qui non interessa l’arrosto (la partecipazione vera). Ci si accontenta del fumo (il marketing della partecipazione). Si potrebbe anche aggiungere che se si crede davvero nell’aiuto che può venire dall’opinione espressa dai cittadini perché non si organizza un bel referendum? Se la posta in gioco è vera, allora molti matureranno la convinzione che è bene impegnarsi per approfondire il tema. All’opinione si unirà certamente un maggior “lavoro” di informazione, per comprendere implicazioni di ogni opzione sul tavolo.

Il gazebo per la raccolta delle firme, a Vignola, per il referendum sull'acqua pubblica (foto dell'8 maggio 2010). Il referendum è un vero strumento di empowerment dei cittadini. Ed infatti l'amministrazione non lo propone. Si accontenta, invece, di "consultazioni". Così alla fine decide lei!

[2] Tutt’altra direzione imbocca invece la proposta del candidato Virginio Merola. I giornalisti che hanno riportato la notizia sul Corriere di Bologna e su la Repubblica – Bologna (del 15 dicembre), colti di sorpresa dalla novità della proposta, hanno banalizzato la sua presentazione. “Cittadini pagati per dire la loro” – titola la Repubblica (vedi). “Merola lancia i «focus group» – dichiara invece il Corriere di Bologna (vedi). Per quel poco che si evince dagli articoli – la proposta non è presentata nel sito web del candidato Merola – si tratta d’altro. La formula assomiglia piuttosto a quella delle “giurie di cittadini”. In questo caso si seleziona un campione ristretto di cittadini, cercando comunque di garantire la rappresentatività (o almeno di evitare distorsioni accentuate), e, come in una giuria popolare, gli si mettono a disposizione tutte le informazioni disponibili sull’argomento, magari facendole anche presentare da esperti. Dopo diversi giorni di approfondimento (un aspetto un po’ banalizzato nella presentazione di Merola, che parla di un campione impegnato il sabato e la domenica, come se in 48 ore fosse possibile ottenere una conoscenza approfondita di un tema, es. lo smaltimento dei rifiuti o i sistemi alternativi di trasporto pubblico) a questi cittadini è chiesto di esprimere le convinzioni che si sono formati nel percorso informativo-formativo. Giustamente Merola assegna a questo tipo di esperienze l’etichetta di “democrazia deliberativa”. Qui, in effetti, a differenza del sondaggio d’opinione, l’analisi ed il dibattito vengono utilizzate come dispositivi di formazione dell’opinione (piuttosto che di semplice rilevazione dell’opinione, assumendo che essa sia già formata). Non si da cioè per scontato che le opinioni ci siano già e siano solide (ovvero nate dall’attenta ponderazione dei pro e contro e delle implicazioni). La formula, dunque, ha un suo interesse. Però si tratta pur sempre della riproduzione “in vitro” di forme partecipative. Pochi partecipanti e partecipanti selezionati indipendentemente dal loro effettivo interesse per il tema. Queste caratteristiche costituiscono il limite di queste esperienze. Inoltre nulla garantisce che, una volta che i “giurati” si siano espressi, dal mondo vero (quello “esterno”) non possa emergere un qualche argomento, una qualche obiezione che essi non avevano considerato. Personalmente sono a favore di forme di partecipazione “in vivo”. Democrazia deliberativa sì, ma quella che viene condotta nel mondo reale (vedi), non all’interno di un gruppo ristretto artificialmente composto. Insomma per ora c’è tanto fumo. A quando un po’ d’arrosto?

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