Salviamo l’Italia. Un libro di Paul Ginsborg

“Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40.000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma è certo un inizio. (…) I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, – mi dicevano, – e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno adesso potrai dire assieme a tutti noi altri: “Mi vergogno di essere italiano”». Inizia così il libro di Paul Ginsborg, Salviamo l’Italia (Einaudi, Torino, 2010, pp.133, 10 euro: vedi). Storico inglese (ora con la doppia cittadinanza), Ginsborg si occupa da quarant’anni di storia d’Italia – con particolare riferimento al periodo dal Risorgimento ad oggi. Salviamo l’Italia è un bel libro. Un bel libriccino, anzi. Sintetico. Ma accattivante e stimolante. E’ scritto giocando su un’idea vincente: mettere a confronto le voci dei personaggi del Risorgimento – quelli che l’Italia l’hanno fatta – con le voci del dibattito odierno. Ed in special modo con le voci di quelli che l’Italia la vorrebbero “salvare”. Un’operazione editoriale che certo ammicca al centocinquantenario dell’Unità d’Italia che cade nel 2011. Guadagnando questa prospettiva storica, questo “sguardo lungo” di centocinquant’anni, Ginsborg ci aiuta a comprendere che diversi dei malanni di cui ci lamentiamo oggi sono, per così dire, fenomeni di “lunga durata”, da tempo presenti nella storia “nazionale”. Come osserva Gustavo Zagrebelsky, in una recensione al libro, “gli accadimenti di oggi, che possono sembrarci difficoltà nuove e insormontabili, visti nel lungo periodo risultano lievi increspature nella continuità d’una storia dalle radici profonde. Dunque: nervi saldi e senso di responsabilità; niente catastrofismi, sterili piagnistei o inutili invettive” (la Repubblica, 12 ottobre 2010: vedi). “Il declino nazionale – ad esempio – è un tema di grande attualità oggi. Lo era anche nei primi anni del Risorgimento.” Anzi, intellettuali, letterati, politici che osservavano l’Italia all’inizio dell’800 lo facevano avendo alle spalle secoli di “declino”. L’Italia al centro del mondo nel Rinascimento era poi divenuta terra di conquista delle potenze straniere. Il problema italiano era dunque la perdita della libertà e come sortire da quella situazione di dipendenza. Se si confronta la situazione dell’Italia dell’inizio del XIX secolo con l’Italia di oggi non c’è dubbio che il problema davvero disperante era quello di allora. Come conquistare la libertà. Come ridare unità ad un paese frammentato. In ogni caso è evidente l’asimmetria delle due situazioni: i patrioti dell’Ottocento avevano un forte senso di identità nazionale, ma non avevano uno stato. “Oggi l’Italia ha uno stato, ma scarso senso della nazione.” (p.15) Le indagini confermano ogni volta che gli italiani hanno un livello di fiducia straordinariamente basso nelle istituzioni dello stato repubblicano (si salva solo il Presidente della Repubblica). Epperò oggi il dibattito sul declino è condotto tutto in riferimento al declino economico. Ma questa è una visione troppo ristretta. Occorre recuperare una riflessione su altre dimensioni di un’eventuale declino (o sviluppo): culturale, civico, politico.

Scarlino (GR): monumento ai volontari del Risorgimento (foto dell'1 settembre 2003)

Il libro è diviso in quattro sezioni. La prima si intitola, provocatoriamente, “Vale la pena salvare l’Italia?”. Si tratta, cerca di spiegare Ginsborg, di “un dubbio storico del tutto legittimo” (p.23), che può essere formulato anche in modo più generico (così da urtare meno suscettibilità): vale la pena salvare le nazioni? Lo stesso quesito può essere formulato diversamente, chiedendosi ad esempio quali elementi peculiari (e positivi) l’Italia ha portato in dote al mondo moderno – elementi per cui vale la pena, appunto, salvarla come nazione. La risposta che Ginsborg fornisce (nella seconda delle quattro sezioni: “La nazione mite”) è un elenco di quattro punti, in parte scontati, ma in parte no. Ne fanno parte (1) la lunga tradizione di autogoverno urbano che va dalla nascita dei Comuni dopo l’anno mille alla difesa delle repubbliche democratiche di Venezia e Roma nel 1848-49; (2) l’intrinseca vocazione europea dell’Italia (dalla Giovine Europa di Giuseppe Mazzini alla partecipazione alla fondazione del Mercato Comune Europeo, passando per il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi); (3) la ricerca dell’eguaglianza, seppur perseguita solo da piccole minoranze nel Risorgimento (rientra qui anche la vicenda – irrisolta – degli squilibri territoriali tra Nord e Sud); (4) la mitezza come virtù sociale (a sostegno di questa scelta Ginsborg cita brani bellissimi di personaggi del Risorgimento: da Mameli a Settembrini, da Santorre di Santarosa a Garibaldi). Ginsborg non afferma che questi quattro elementi siano predominanti nella storia d’Italia. Nella selezione di questi e non altri elementi opera indubbiamente la soggettività dello storico (vocazione per le arti e la letteratura, cultura, avrebbero ugualmente meritato di farne parte). E sugli elementi che dovrebbero comporre l’elenco delle “virtù” distintive dell’Italia non starebbe male un dibattito serio e ampio. Visto che la selezione dell’uno o dell’altro ha certamente a che fare non solo con il passato, ma anche con il futuro, ovvero con quei tratti caratteristici del passato che noi vorremmo vedere proiettati, mantenuti, sviluppati nel futuro. Per Ginsborg, comunque, si tratta di “fattori degni di essere identificati e coltivati perché contribuiscono a una visione della nazione moderna assai diversa, che si distacca dal terribile nazionalismo del secolo scorso.” (p.47)
La terza sezione è dedicata al quesito: “Salvare l’Italia da che cosa?”. Ginsborg individua “quattro grandi pericoli da cui l’Italia deve essere tutelata: una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole; l’ubiquità del clientelismo; la ricorrenza della forma dittatura; e infine la povertà delle sinistre” (p.85). Preciso solo che il terzo pericolo si è manifestato, in Italia, due volte nell’ultimo secolo: dapprima con l’invenzione del Fascismo (poi “esportato” in altre parti del mondo); oggi con quel “regime” formalmente democratico, ma caratterizzato dalla presenza di un leader politico dotato di un grande patrimonio economico (con cui ha realizzato un proprio partito) ed in grado di controllare i mass media e di usarli a proprio beneficio. Un regime che si configura, dunque, come una democrazia con tratti di illiberalità ed autoritarismo – la migliore descrizione è ad opera di un altro storico: Gibelli A., Berlusconi passato alla storia, Donzelli, Roma, 2010: vedi.

Modena: lapide in ricordo di Ciro Menotti (foto del 23 ottobre 2010)

L’ultima sezione si intitola: “Chi salverà l’Italia?”. Se nella realizzazione dell’unificazione dell’Italia furono due forze armate autoctone a giocare un ruolo fondamentale (l’esercito sabaudo ed i volontari, esemplificati dalle “camice rosse” garibaldine), quali possono essere le “forze armate” in grado di mobilitarsi efficacemente per salvare l’Italia? Dico subito che questa parte mi sembra meno convincente delle altre. La mia impressione è che Ginsborg faccia eccessivo affidamento sulla mobilitazione spontanea di una parte della società (lui guarda in primo luogo ai “ceti medi” che però vanno, innanzitutto, meglio differenziati, visto che l’espressione identifica di fatto una vasta categoria sociale che raggruppa tutti coloro che non sono imprenditori od operai). Insomma, quali “truppe”, quali gruppi sociali, quali movimenti sono all’opera o possono essere (ulteriormente) mobilitati per “salvare l’Italia”? Ovvero per rafforzare (e non disperdere) quegli elementi distintivi individuati nella seconda sezione (autogoverno, vocazione europea, ricerca dell’eguaglianza, mitezza)? “E’ possibile distinguere nella società italiana di oggi degli elementi che ricordino i garibaldini di 150 anni fa?” (p.118). Un candidato, per Ginsborg, è il “ceto medio riflessivo”: essenzialmente lavoratori intellettuali (un gruppo sociale certamente in crescita: impiegati delle imprese e soprattutto della pubblica amministrazione e professionisti). E’ questo gruppo sociale che alimenta i movimenti di protesta contro il regime berlusconiano – dai girotondini al “popolo viola” – secondo manifestazioni in ampia misura esterne ai partiti del centrosinistra. E’ però vero – questo lo riconosce anche Ginsborg – che per quanto in crescita, questi gruppi di “attivisti” sono ancora ampiamente minoritari. Manca, inoltre, una “visione del mondo” che possa fungere da propellente per questi gruppi (come lo era stato il Romanticismo, per le élites borghesi, agli inizi del XIX secolo). Insomma, il limite è fare affidamento per intero sui movimenti sociali, trascurando il ruolo giocato da partiti ed istituzioni (la Chiesa, sindacati ed associazioni di categoria, la stampa, ecc.), oltre ai fattori di logoramento interno, di implosione del regime berlusconiano. Al di là della fragilità della “prognosi” il libro di Ginsborg merita di essere letto (e dibattuto) per l’originalità della prospettiva e per la migliore ponderazione dei “caratteri della nazione” che una visione storica di lungo periodo offre. Forse le risposte che l’autore presenta non sono del tutto convincenti, ma le domande che, grazie al confronto tra le due epoche storiche (il nostro presente ed il Risorgimento), egli formula sono di fondamentale importanza. Da esse e dalle risposte che sapremo fornire discende il nostro prossimo futuro. Apprestarsi a celebrare i centocinquant’anni d’Italia confrontandosi con il libriccino di Ginsborg è dunque un esercizio salutare. Un modo non ritualistico per celebrare la patria.

Sul tema vedi anche l’intervista di Paul Ginsborg su Gli Altri del 15 ottobre 2010 (vedi) ed un suo articolo su il Manifesto del 23 ottobre 2010 (vedi). Sul confronto tra passato e presente  è giocato in parte anche il libro di Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Bari, 2010, pp.144, 15 euro (vedi) che però è focalizzato sulla descrizione del “sistema di corte” del regime berlusconiano e sulla proposta di fuoriuscita tramite la riscoperta o l’imparare il “mestiere dei cittadini”. Nella proposta dei due autori vi sono evidenti affinità.

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