La recente polemica vignolese tra PD e Lega Nord sul monumento ai caduti in guerra è certamente poca cosa rispetto a quello che sta succedendo a livello nazionale dove sempre più spesso le forze politiche del centrodestra – tra cui in primo luogo la Lega Nord – mettono in discussione i simboli dell’unità nazionale ed, anzi, si propongono di scrivere una diversa storia dell’Italia. Probabilmente da noi la Lega Nord mostra il suo volto più pragmatico. Ma non c’è dubbio che, magari con modalità attenuate, anch’essa lavora allo “smontaggio” del sentimento di solidarietà della nazione. E’ bene non sottovalutare questa “lotta sui simboli”, evitando di ridurla solo a folklore.

Il nuovo monumento ai caduti in guerra in costruzione al cimitero di Vignola (foto del 2 giugno 2010)
[1] Sempre più spesso le sortite della Lega Nord ed anche di parte del centrodestra hanno come obiettivo quello di “riscrivere” la storia. In modo più accentuato che in passato anche la storia è oggi divenuta terreno di lotta politica. In alternativa alla storia ufficiale dei manuali scolastici la Lega Nord propone una diversa narrazione dove cambiano le valutazioni circa i personaggi, le epoche, le date che hanno segnato e caratterizzato nel profondo l’Italia come paese. Questa opera di “revisione” è condotta per fini politici. E’ strumentale. I fatti, i dati oggettivi sono piegati a finalità politiche. Complice la scarsa consapevolezza storica e civile di larga parte degli italiani si cerca di rendere credibile una visione storica propedeutica alla politica leghista di disarticolazione dell’unità dello stato (che oscilla tra federalismo e seccessione). E’ questa un’opera martellante – troppo spesso liquidata come semplice folklore – che ha accompagnato l’azione politica della Lega Nord da quando è nata, alla fine degli anni ‘80. In effetti l’emergere della Lega Nord e del sistema politico che si è affermato dopo Tangentopoli ha visto saltare una convenzione tacitamente assunta da tutte le forze politiche della “Prima Repubblica”, ovvero che la lotta politica non dovesse giungere a mettere in discussione l’unità del paese. E’ stata la Lega Nord che per prima ha rotto questo patto tacito ed anzi ha lucrato consensi elettorali proprio dal mettere esplicitamente in discussione tale patto, avendo buon gioco nel denunciare il fallimento della politica per il “Mezzogiorno” e l’insostenibilità di meccanismi di trasferimento di risorse dal Nord al Sud Italia (ciò che Luca Ricolfi, attento sociologo, ha compendiato nella formula “il Sacco del Nord”: vedi). Ci sono molti modi per denunciare la politica a favore del mezzogiorno che è stata perseguita dai governi italiani nel secondo dopoguerra (fino agli anni ’60 con un certo successo, in verità; dopo con esiti controproducenti). La Lega Nord ha scelto un modo che pone a rischio l’unità del paese, erodendo progressivamente le basi non solidissime di un sentimento di solidarietà nazionale (per chi volesse vedere una critica ed una proposta “da sinistra” consiglio di leggere il saggio di Michele Salvati – Una modesta proposta per una grande questione – sull’ultimo numero della rivista Il Mulino, n.2, 2010, pp.215-225). Si tratta di una politica irresponsabile che evoca spettri che una volta mobilitati potrebbero rivelarsi non facilmente dominabili. Il paragone con le vicende dell’ex-Jugoslavia, della ex-Cecoslovacchia o con un Belgio attraversato da forti tensioni separatiste sembra ancora oggi assai azzardato, ma forse conviene iniziare a studiare la dinamica politica che ha portato alla dissoluzione dei primi due stati citati e che sta spingendo nella stessa direzione anche il terzo. Da tempo, infatti, la Lega Nord ha affiancato ai suoi obiettivi politici l’erosione del consenso culturale per l’idea di una nazione. Da qui l’enfasi su una diversa entità territoriale (la “Padania”, entità mai esistita!) e sui diritti di autodeterminazione dei “popoli” (sempre pensando al “popolo Padano”, entità indefinita). Da qui la messa in discussione dei simboli o dei personaggi dell’unità nazionale: il Tricolore (con Bossi che in più occasioni si è prodigato in affermazioni o gesti irriverenti), l’inno nazionale (il “Va Pensiero” di Verdi che si vorrebbe sostituire all’inno di Mameli), i personaggi che hanno “fatto” l’unità d’Italia (Garibaldi innanzi a tutti) o di interi periodi storici come il Risorgimento, proprio perché il suo principale risultato è stato quello dell’unità politico-amministrativa del paese (da qui le contestazioni in merito alla celebrazione dei 150° dell’unità d’Italia in preparazione a Torino per il 2011).

Il passaggio dal vecchio al nuovo cimitero (ampliamento in corso), originaria ubicazione della lapide dedicata ai caduti di guerra (foto del 2 giugno 2010)
[2] E’ un sano principio della democrazia non inquinare il dibattito storico ed il lavoro storiografico con evidenti finalità politiche (un modo di procedere tipico dei regimi autoritari, sia di destra che di sinistra – che la Lega Nord sta riproducendo in un contesto democratico, di società aperta, contando sulla scarsa consapevolezza storica degli italiani). Quando la finalità di chi “scrive” la storia è innanzitutto quella di promuovere un’idea politica si fa propaganda, non cultura. Tutto ciò, inoltre, si mischia in molti casi con il tentativo di “inventarsi una tradizione” (la “Padania”, i riti celtici, il giuramento di Pontida: vedi) – un’impresa messa in campo per legittimare un progetto politico (vedi). Se l’Italia fosse un paese serio e dalle profonde convinzioni civili avrebbe già accompagnato alla porta quei politici che inquinano la già debole cultura storica dei cittadini di questo paese – già solo per questa ragione. Avremmo infatti bisogno, invece, di diffondere nel paese una più acuta consapevolezza storica. Una più acuta capacità di leggere la storia nei suoi chiaroscuri, nella sua complessità – senza guardarla o trattarla da fans dell’uno o dell’altro schieramento. Per fare questo anche la storiografia può fare molto – ed in effetti lo sta facendo – ad esempio abbandonando alcuni schematismi che si sono consolidati nel tempo, fino a diventare tradizione indiscussa. Non abbiamo bisogno di una lettura agiografica né del Risorgimento, né della Resistenza – ed è in effetti da tempo disponiamo di studi storici che non nascondono i limiti dell’uno e dell’altro periodo, ricordando però sempre anche i grandi meriti che essi portano con sé. In occasione della Festa della Liberazione e della Festa della Repubblica, diversi sono stati gli articoli di storici od intellettuali apparsi sui quotidiani proprio come reazione ad un dibattito politico pasticciato sulla storia d’Italia. A me sono capitati sottomano un articolo di Sergio Luzzatto su Garibaldi e la spedizione dei mille (vedi), di Massimo L.Salvadori sull’unità d’Italia e “gli assalti della Lega” (vedi), oltre che un articolo di Claudio Magris sulla Resistenza (vedi), in cui osserva: “Se c’è una cosa che non vorremmo, è dover ripetere parole d’ordine antifasciste, che speravamo mai più necessarie. Ma è possibile che, a malincuore, dovremo farlo, così come è tristemente probabile che l’anno prossimo, nella ricorrenza dei centocinquant’anni di storia d’Italia, i livori degli aggressivi campanilismi ci costringeranno a ripetere gli elogi di Garibaldi e Cavour.”

Monumento ai caduti della Prima Guerra mondiale, presso il Municipio di Vignola, realizzato dallo scultore Vignolese Luigi Bondioli nel 1923, in epoca fascista (in origine ubicato in Corso Italia) (foto del 2 aprile 2010)
[3] A livello locale questa fenomenologia risulta in verità alquanto contenuta. La Lega Nord di Vignola e dintorni si è occupata molto di più di fotored, di organico della polizia municipale o di lotta all’immigrazione (non solo clandestina) che di simboli o di questioni storico-nazionali. Segno di un maggiore pragmatismo (anche se qualche volta è capitato che riunioni della Lega Nord siano iniziate con tutti i presenti sull’attenti ad ascoltare l’inno verdiano!). Certo, non sono mancati episodi di una “battaglia culturale”, più però sui temi affini della difesa di tradizioni locali o territoriali od anche religiose (sempre in quanto tradizioni, però). Ma si è trattato, sino ad ora, di episodi limitati – segno di scarso “investimento” e, probabilmente, di scarsa convinzione. C’è stato in passato, nel 2004, il tentativo maldestro di difendere le “tradizioni cristiane” del Natale, incarnate secondo i leghisti nella figura di Babbo Natale. Ho in mente l’allora consigliere provinciale della Lega Nord Giorgio Barbieri vestito da Babbo Natale a Castelfranco Emilia per difendere le “tradizioni del Natale cristiano” (dimenticando che Babbo Natale è in realtà una figura pagana che negli anni ’50 e ’60 era osteggiata dalla Chiesa cattolica: vedi). E poco altro. Anche la polemica pubblica a mezzo stampa dell’aprile scorso, relativa alla “memoria dei caduti in guerra”, sembra più un incidente di percorso, frutto di una considerazione esposta con leggerezza da un consigliere comunale, piuttosto che un attacco deliberato alla “memoria storica” od al sentimento diffuso di rispetto verso i caduti in guerra. All’origine vi sono le dichiarazioni rilasciate dal consigliere della Lega Nord Simone Pelloni in occasione della seduta del consiglio comunale del 30 marzo scorso ed in particolare uno degli argomenti utilizzati per contestare la decisione dell’amministrazione comunale di spendere 80.000 euro per la realizzazione di un monumento ai caduti in guerra nel cimitero di Vignola (in sostituzione della lapide, in precedenza collocata nell’arcata n.49, che necessitava di essere spostata per la realizzazione del passaggio alla nuova area di ampliamento). Secondo quanto affermato nel comunicato stampa dell’amministrazione (o maggioranza?) il consigliere Pelloni avrebbe dichiarato che la spesa risulterebbe eccessiva anche perché “non si può certo pensare che aumenteranno i turisti a Vignola per visitare il monumento”. Nella replica riportata su L’Informazione di Modena del 4 aprile 2010, Simone Pelloni precisa: “La mia critica, che confermo, verteva sulla giustificazione presentata dal capogruppo PD sulla supposta attrattiva a fini turistici del monumento e non era assolutamente rivolta alla memoria dei caduti in guerra, dei quali sia io, sia il mio capogruppo Fiorini avevamo onorato la memoria e il ricordo”. Per sapere esattamente com’è andata bisognerebbe dunque ascoltarsi la registrazione della seduta consiliare. Ai fini delle presenti considerazioni cambia poco. Può darsi che la Lega Nord locale, magari pragmatica e meno ideologica, sia stata risucchiata nell’immagine che offre di sé il partito nazionale e larga parte dei suoi esponenti. Sta di fatto, comunque, che essa fa parte di un partito che si è dato come mission quella di difendere gli interessi di una parte paese (il Nord) anche a costo di minare l’unità della nazione, anzi perseguendo sistematicamente questo fine (nella misura oggi possibile). L’incapacità della politica di affrontare in modo efficace la “questione territoriale” che da più di un secolo segna questo paese (i problemi del Meridione e la connessa questione del “prelievo” di risorse a cui è sottoposto il Nord) fa diventare concreto il rischio che dalla “lotta” culturale e simbolica per indebolire il sentimento di solidarietà nazionale non nasca nulla di buono. Forse dal “folklore” alla disarticolazione dello stato italiano il passo non è poi tanto lungo.
PS Dopo aver scritto il post ho letto l’articolo di Gianfranco Pasquino, “Il gioco duro della Lega”, il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010 (vedi), dove si dicono cose simili, certo con maggiore autorevolezza. Cito solo questo: “Troppi politici, commentatori e preti hanno liquidato tutto questo, compresi i battesimi celtici nel Po, come folklore. Invece, è un modo di dare senso ad una politica lentamente, sottilmente, inesorabilmente (tanto che non esiste neppure più la necessità di proclamarlo) separatista.”
PPS Su la Repubblica del 22 giugno Ilvo Diamanti ripercorre le tappe dell’invenzione della “Padania” da parte della Lega Nord. Il “lancio” della Padania avviene tra il 1995 e 1996 (vedi). Angelo Panebianco, a sua volta, sul Corriere della Sera del 24 giugno, con un articolo dal titolo eloquente “La questione non è padana”, argomenta in modo chiaro (come Michele Salvati) che la vera questione “nazionale” è il Sud. “E’ del Sud che ci si deve occupare. Perché se non si creano, e in fretta, le condizioni per uno sviluppo autonomo del Sud saranno guai” (vedi).
Dopo aver pubblicato questo post ho trovato in libreria il bel libro dello storico Emilio Gentile: Né stato, né nazione. Italiani senza meta, Laterza, Bari, 2010, pp.113, € 9,00.
http://www.laterza.it/schedalibro.asp?isbn=9788842093213
Inizia citando lo storico francese Ernest Renan: “Renan diceva che la nazione è una «grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme».” (p.VIII) Ma secondo Gentile i cittadini italiani “non hanno mai avuto il sentimento comune dei sacrifici compiuti insieme.” Gentile dedica il primo capitolo al “giubileo della patria”, la celebrazione dei primi cinquant’anni dello stato unitario, nel 1911. In quel caso “gli italiani si divisero fra la partecipazione e la contestazione, fra il plauso e la condanna della celebrazione.” (p.11) La Voce, rivista diretta da Giuseppe Prezzolini, “commemorò l’evento con un numero speciale sulla questione meridionale, aperto da un severo e meditato articolo del grande meridionalista Giustino Fortunato intitolato Le due Italie.” Sembra che il tempo passi ed i problemi siano esattamente gli stessi! Il filosofo Giovanni Amendola scriveva: “L’Italia come oggi è non ci piace”.
Il grande errore su questi temi è stato quello di sottovalutarne l’impatto. In questo, credo che tutta la cultura di sinistra (o la sinistra della cultura, non saprei quale sia la migliore definizione) ha gravi responsabilità, dovute probabilmente all’errata percezione di un’immutabilità del panorama dei riferimenti storici e culturali della Repubblica. Una volta dati, certi valori sono per sempre, e noi – per qualche grazia superiore – ne siamo le meritevoli vestali; questo ho spesso percepito anche negli ultimi anni, anche quando certi segni si facevano sempre più evidenti (revisionismi e inganni storiografici di varia natura).
E’ vero quello che dici, Andrea: l’Italia è un paese privo di anticorpi in grado di opporsi a certe derive “creative” sulla storia e le tradizioni del Paese. Sarà per la sua storia (che obiettivamente nei suoi momenti salienti, non è stata la medesima vicenda ovunque), sarà per lo spirito degli italiani. Ma gli anticorpi mancano.
Se su questa base andiamo a sovrapporre il diffuso individualismo amorale e l’incapacità ormai patologica di riconoscere qualsiasi tipo di autorità, ecco che l’Italia è il paese dove la storia la può raccontare chiunque, in qualunque modo, basta essere più convincenti e semplificare ed appiattire il più possibile, per rendere interi processi storici (durati magari anni e costati vittime o lotte durissime) degli slogan. Prendiamo l’esempio più chiacchierato degli ultimi anni, il fenomeno Pansa. Il suo libro “Il sangue dei vinti” sugli eccessi e gli errori-orrori della guerra partigiana fu accolto da ambienti fortemente legati alla Resistenza con biasimo unanime e sdegno. Ma per il motivo sbagliato, secondo me. Non si tratta di condannare il tentativo di riaprire un capitolo di storia e costruirvi sopra finalmente una storiografia ampia e condivisa (bel libro – che forse ho già citato, ma vabbè… – è questo di Santo Peli, completo e con uno sguardo su tutto il fenomeno Resistenza, dai partigiani nel nord, alle insurrezioni nel sud, ai militari, agli internati militari etc… http://www.wuz.it/catalogo/libri/scheda.aspx?ean=9788806164331); anzi, quel processo è auspicabile, dopo decenni di ortodossie egemoni e catechismi inamovibili su questi temi. Il problema non è il “cosa” si metta in discussione, ma il “come” lo si fa. Il libro di Pansa è il lavoro di un non-storico, o di uno storico non di professione; è opera di un giornalista, che tocca corde diverse da quelle che va a cercare lo storico. Si parla di ciò che accadde, legittimamente, ma spessissimo scadendo nella piccolezza dell’episodio, della vicenda personale, familiare, facendone una chiave di lettura degli avvenimenti storici. In questo modo, il rischio è di scadere in un sentimentalismo che offusca la capacità di visione d’insieme.
Se a ciò aggiungiamo la martellante campagna sugli storici, che sarebbero “di parte”, le categorie semplificatorie sono confezionate e pronte ad essere brandite come arma di ottundimento di massa. E’ utile sgombrare il campo: può uno storico essere di parte? Sì, deve essere di parte, è il suo mestiere. Ma cosa significa di parte? Non ha a che fare con la politica dei partiti come la conosciamo. Essere di parte significa in questo caso prendere una posizione. Lo storico analizza documenti, e cerca una chiave interpretativa che descriva in modo circostanziato gli eventi dei quali si occupa. Ricerca connessioni con il prima e il dopo quegli eventi. Restituisce la storia nella sua rotondità di macro-evento umano, invece che nella nudità di una cronaca o di una scarna linea del tempo. Si tratta di un’altissima attività speculativa che l’uomo è in grado di compiere. E non è priva di implicazioni “pratiche”, come mostra questo post.
Storici e mondo della cultura in generale devono andarsi a riprendere quegli spazi che avevano e che hanno sciupato negli anni, pensando di poter vivere di rendita su certezze acquisite. Mi è capitato di sentire, nell’ambito di lezioni universitarie, professori che deridevano questo uso strumentale e inventato della storia fatto da alcune forze politiche; un elegante sfoggio di ironia completamente inutile, perché non dovevano persuadere me o chi era in quell’aula; noi eravamo già persuasi. Vanno riportate ad una coscienza della complessità della storia e quel minimo rispetto di un principio di autorità verso chi lo storico (o l’uomo/donna di cultura in genere lo fa di mestiere) che oggi manca completamente (e che permette quindi a qualsiasi dilettante di inventarsi storico o “cacciatore” di documenti inediti – vedi i casi recenti di Dell’Utri “in possesso” dei diari del duce o di un capitolo “inedito” di un postremo Pasolini). Ma con tutto il tempo che si è perso (mi viene da dire: intere generazioni) quanto lavoro ci sarà da fare per ottenere ciò? C’è una classe dirigente (nel mondo culturale, ma non solo) pronta ad un investimento culturale sul Paese che implicherebbe, tra le varie cose, la propria auto-eliminazione?
In un certo senso, credo che il pantano nel quale affondano le celebrazioni del 150° dell’Unità siano il frutto di colpe incrociate: è ingiusto sparare solo su chi – maliziosamente – produce visioni storiografiche distorte o deliberatamente inventate o errate; ci sono anche le colpe di chi si è pensato indiscutibile, mentre la coscienza e la capacità di ricevere e condividere patrimoni socio-culturali del paese gli veniva manipolata sotto il naso.
Tornando al piano locale (fronte certo più piccolo, ma non meno importante), se è vero che è discutibile la posizione del consigliere Pelloni, è altrettanto discutibile la giustificazione qui riportata nel post, cioè che il monumento è da realizzare a “fini turistici”; sarebbe stato meglio dire che uno dei (pochi) simboli che uniscono le città d’Italia è il monumento ai caduti, e che, per senso di unità e come gesto istituzionale, si sceglie di investire in un simbolo che ricorda un passaggio drammaticamente saliente della storia di questo Paese.
Nel momento in cui finisce la testimonianza, l’unico modo per costruire una coscienza condivisa sulla propria storia è quella della storiografia, fatta di discussioni. Terminate le parole d’ordine e le posizioni di appartenenza, tocca alla discussione vera e informata, e – importantissimo – ben argomentata (altro bel libro, questo in particolare sull’Olocausto, ma le riflessioni generali valgono in senso più ampio: http://www.einaudi.it/libri/libro/david-bidussa/dopo-l-ultimo-testimone/978880619262 ). Se no, vince la logica – nefasta – del più grosso e in salute. E l’analisi critica, di questi tempi, non se la passa proprio bene.
Marco Bini
“Noi siamo destinati a veder nascere la Padania, non c’é santo che tenga – ha dichiarato ieri il ministro delle Riforme al quotidiano online Affaritaliani.it -. La Padania sta a noi se farla in maniera pacifica o violenta. Io preferisco la via pacifica, perché per l’altra via c’é sempre tempo a utilizzarla, ma per ora bisogna portare a casa il più possibile in Parlamento” Queste le dichiarazioni del ministro Umberto Bossi riportate dal Corriere della Sera del 29 giugno, pag. 12. Vi prego di prestare attenzione al passaggio: “per l’altra via [quella violenta] c’é sempre tempo”. Perché questo paese tollera politici di questa fatta? Perché accettiamo che venga messa in discussione l’unità nazionale? Che giorno dopo giorno si diffonda l’idea che tutto sommato sia accettabile (e magari anche preferibile) che l’Italia venga disarticolata (con la Padania al Nord e chissà cos’altro al centro ed al Sud)?
http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search¤tArticle=SJBNU