Congresso del PD. Perché mi convince di più la linea di Franceschini

Sergio Romano, lucido ed autorevole commentatore conservatore, lo ha scritto il 16 luglio sul Corriere della Sera: “La sorte del PD riguarda tutti”. Detto altrimenti: tenuta e sviluppo del PD sono necessari per il buon funzionamento del sistema politico italiano (vedi). Certo, l’atteggiamento dell’osservatore, ancorché interessato, si distingue da quello del partecipante, del cittadino simpatizzante o, ancora di più, del militante impegnato. Nell’avvicinarsi al “congresso” (la Convenzione nazionale) dell’11 ottobre ed alle “primarie” del 25 ottobre è tuttavia bene cercare il più possibile di mantenere lucidità, per trovare la giusta lettura dei primi due anni di vita del Partito Democratico (riconoscendo nel modo più oggettivo possibile i grandi risultati conseguiti assieme agli errori commessi) e dunque fare una scelta tra i candidati alla segreteria nazionale orientata dalla consapevolezza della posta in gioco. Vorrei provarci in questo post, con l’ausilio di qualche commentatore, anche mettendo a confronto le tre mozioni congressuali: Bersani, Franceschini, Marino (vedi il testo delle mozioni sul sito del PD nazionale: vedi).

Pierluigi Bersani, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

Pierluigi Bersani, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

[1] Nei primi giorni del 2007, plausibilmente assieme a diverse migliaia di simpatizzanti del nascente PD, mandai un’e-mail a Pierluigi Bersani, allora ministro allo sviluppo economico nel governo Prodi, per invitarlo a candidarsi alle primarie del PD del 14 ottobre 2007. Il 9 luglio Bersani fece rispondere per e-mail a tutti i suoi supporters scrivendo che non si sarebbe candidato: “Dopo aver riflettuto a fondo voglio dirti che non lo farò. Per come si sono svolte le cose, quello che avrebbe potuto essere un arricchimento del nostro percorso rischierebbe oggi di diventare un elemento di disorientamento di una parte importante del mondo a cui ci rivolgiamo.” In seguito Bersani ha confessato di essersi pentito di quella sua decisione, ma oramai si trattava di un’occasione mancata. E’ difficile dire che cosa sarebbe successo al PD con la candidatura di Bersani nel 2007. Il congresso del 2009 ha, probabilmente anche per questo, il compito di fare chiarezza su alcune questioni di grande importanza nell’organizzazione del partito che non sono state affrontate adeguatamente in quella fase (o che sono emerse con chiarezza nella fase successiva alle elezioni politiche dell’aprile 2008: vedi). Per questo la Convenzione nazionale dell’11 ottobre ha una funzione “recuperante”: portare in luce ed affrontare i nodi critici non affrontati né sciolti allora. Le candidature contrapposte Bersani-Franceschini aiutano a svolgere questo compito. Nonostante l’autorevolezza di Ignazio Marino, anch’io sono convinto che sia destinato a rimanere un outsider in questa competizione, non solo per il minor seguito, ma anche per la minore capacità di mettere a fuoco i nodi critici principali che il PD deve sciogliere per poter mettere a punto, da qui in poi, un’efficace strategia (e quindi metterla in pratica). Per questo, pur avendo letto con attenzione tutte e tre le mozioni congressuali, dedicherò la maggior parte del mio argomentare ad un confronto tra quella di Bersani e quella di Franceschini. Tutte e tre le mozioni presentano in realtà un abbozzo di programma per l’Italia – la proposta che il PD intende fare per la trasformazione del paese – assai simile. E tutte e tre queste proposte sono ampiamente sovrapponibili al discorso-programma tenuto da Valter Veltroni il 27 giugno 2007 al Lingotto di Torino e poi raccolto nel libro La nuova stagione (vedi). Lotta alle disuguaglianze sociali; valorizzazione del merito; centralità della scuola, della formazione, della ricerca scientifica; la promozione della crescita economica basata su conoscenza e rispetto ambientale; una democrazia che decide, un nuovo modo di fare politica, una più forte impronta etica della “classe politica”. Tutti temi trattati, seppure con diverse sfumature, in tutte e tre le mozioni. “Ridurre le disuguaglianze, liberare il merito” – è il titolo di un paragrafo del documento di Bersani. “Fiducia, regole, uguaglianza, merito, qualità”: queste sono le “cinque parole chiave” del PD che propone Franceschini. Insomma, un forte orientamento riformatore, il riconoscimento del valore della competizione in un’economia di mercato (e, dunque, delle “liberalizzazioni” – punto su cui il ministro Bersani ha bene lavorato), la volontà di semplificare il sistema politico (riforme istituzionali) e di ridare autorevolezza alla politica, l’affermazione del principio di laicità dello stato (tema forte per il lavoro parlamentare svolto da Ignazio Marino) – sono un patrimonio consolidato del Partito Democratico. Non è qui, dunque, che occorre focalizzare l’attenzione. In effetti i nodi strategici stanno su altri due fronti: la strategia delle alleanze e l’interpretazione della famigerata vocazione maggioritaria, da un lato, ed il modello organizzativo del partito con particolare riferimento alla distribuzione del potere di partecipazione alle decisioni tra iscritti ed elettori.

Dario Franceschini, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

Dario Franceschini, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

[2] Su che cosa sia la “vocazione maggioritaria” e di come tale espressione abbia cambiato di significato nel volgere di pochi mesi bisognerebbe scriverci un libro. E’ bene non raccontarsela. Veltroni ha utilizzato l’espressione “vocazione” o “ambizione” maggioritaria intendendo un partito che ha la capacità di attrarre in misura crescente consenso elettorale, così da diventare “il primo partito italiano” (vedi a p.24 de La nuova stagione). Ma indubbiamente non si poteva pensare di compiere un tale balzo con le sole elezioni del 2008 (anche se Veltroni, per sua stessa ammissione, era convinto di potersela giocare alla pari). Si tratta semmai di aprire un ciclo politico nuovo, ovvero di costruire un partito che sappia mettere in cantiere una serie di proposte innovative tale da conquistare progressivamente una quota significativamente crescente dell’elettorato italiano. Il presupposto di questa visione strategica è la mobilità di una parte dell’elettorato italiano, ovvero il fatto che cittadini sino a ieri indirizzati verso altri partiti dell’area circostante il PD – UdC al centro, partiti di sinistra all’altra estremità, IdV – riconoscano nel PD, nel suo programma e nei suoi uomini (e nel suo leader) qualcosa di assai rispondente ai bisogni propri e del paese e dunque scelgano di convergere elettoralmente verso il PD. La delusione patita alle elezioni del 2008 ha scatenato una revisione, forse anche troppo marcata, verso questa linea strategica – l’ambizione o vocazione maggioritaria di allora viene oggi rivista aggiungendo che non si tratta, però, di autosufficienza. L’impressione è che, in una certa misura, ci si sia accomodati ad una rinuncia di quel tasso di innovazione del partito che potrebbe accrescere le chances di una rapida (parliamo pur sempre di qualche anno – il riferimento che di solito si fa è al “ciclo politico” di Tony Blair) crescita dei consensi elettorali. Bersani, proprio su questo aspetto, titola un paragrafo del suo documento “Da soli si può fare poco” (p.9). E scrive: “la vocazione maggioritaria non significa rifiutare le alleanze, (…) non consiste nell’autosufficienza”. Aggiungendo: “non possiamo più confondere il bipolarismo (…) con il bipartitismo” (buono il primo, implausibile il secondo nel contesto italiano). Dunque ricerca di allenze, già a partire dalle regionali del 2010: “Sarà necessario sperimentare su basi programmatiche larghi schieramenti di centrosinistra, alleanze democratiche di progresso alternative alla destra.” E’ una formula che mi fa venire in mente alleanze che, avendo il PD come “perno”, vanno dall’UdC all’Italia dei Valori, a Rifondazione Comunista. Sulla prospettiva di una crescita forte del PD si è già voltato pagina. Franceschini non dice, in verità, cose troppo distanti da queste. Fa affermazioni improntate a grande cautela (p.32): anche il suo PD sceglierà la strada delle alleanze per il governo nazionale ed anche per le elezioni regionali del 2010. Coalizioni però, anche in questo caso (esattamente come per Bersani), costruite in base ad un programma condiviso e realizzabile, insomma che consentano di governare (bene). Ma c’è un passaggio che sembra introdurre un elemento in più: “Non torneremo indietro, ad un centro-sinistra col trattino, basato su una divisione di compiti nel raccogliere consenso o nel rappresentare pezzi di società e che circoscriva la nostra capacità espansiva.” Il “fantasma” evocato qui è quello di un’alleanza con l’UdC in cui il PD svolga la funzione che svolgevano i DS nell’alleanza con la Margherita. Un’alleanza che ridimensiona la prospettiva del PD come partito a “vocazione maggioritaria”, precludendogli un’espansione elettorale verso il centro. E che pure risulterebbe alquanto instabile, con l’UdC pronto ad allearsi con il centrodestra una volta giunto al termine il ciclo politico di Berlusconi. Si consideri anche che un’alleanza con l’UdC vedrebbe il PD pagare il prezzo di accettare una legge proporzionale alla tedesca (o qualcosa di simile) – un passaggio che potrebbe essere destabilizzante per il bipolarismo italiano. E’ indubbio che al di là della cautela dei documenti congressuali su questo punto c’é una differenza significativa tra Bersani e Franceschini ed i relativi retrostanti schieramenti: con Bersani c’è D’Alema che da tempo gioca lo schema delle alleanze sinistra-centro; con Franceschini c’è una parte consistente ex-Margherita – ex-PPI – che, anche per non trovarsi eterna minoranza in un partito “di sinistra” o per non voler “morire socialdemocratici”, apprezza di più l’opzione di un PD che non rinuncia a cercare di essere attraente per gli elettori moderati. Su questo punto è illuminante l’analisi condotta da Michele Salvati (schierato con Franceschini, ma intellettualmente onesto, oltre che lucido) in alcuni recenti articoli: il 5 luglio (vedi) ed il 20 luglio (vedi) sul Corriere della Sera, il 28 agosto su Il Riformista (vedi). Insomma, il punto è importante e per questo occorrono formulazioni della strategia di medio periodo meno ambigue e meno caute. Personalmente mi convince di più un PD che non rinuncia ad una “ambizione maggioritaria” (che non vuol dire approdare ad un unico partito di centrosinistra, ma avere un PD che innova in misura più significativa rispetto ad oggi nella forma di partito, nel leader, nel programma per aumentare il suo appeal elettorale e la sua credibilità) – anche se essa va commisurata anche ai margini di manovra dell’odierno sistema elettorale.
[2bis] La questione circa l’uso della parola “sinistra” – a cui Bersani non intende rinunciare (vedi) – è strettamente collegata al posizionamento nel campo politico ed al tema della vocazione maggioritaria. Se qualcuno mi chiede se sono di sinistra io rispondo di sì. Ma, anche per la storia che sta alle spalle del Partito Democratico, è plausibile che non tutti si riconoscano in questa etichetta. Mi sembra sia saggio prenderne atto. Altrimenti ci chiameremmo Partito Democratico della Sinistra (PDS) o Democratici di Sinistra (DS) – storie già viste e che abbiamo lasciato alle nostre spalle (personalmente senza rimpianti). Ciò che è rilevante è che cosa questo partito mette al centro del suo programma e per me (e per tutti e tre i candidati) la risposta è chiara: riduzione delle disuguaglianze sociali ed offerta di pari opportunità a tutti (dunque istruzione come dispositivo di mobilità sociale, premio al merito, contrasto alla precarietà, ecc.). Progressisti, riformatori – sono dunque espressioni che vanno ugualmente bene per identificare il nucleo programmatico centrale del partito. Le etichette hanno un valore relativo – in Gran Bretagna si chiamano laburisti; in Spagna socialisti; in Germania socialdemocratici. La peculiarità della storia italiana suggerisce – e su questo Salvati è stato di una chiarezza esemplare – di non attestarsi su quei “modelli”. Per un semplice motivo: da noi sono minoritari. Se il termine “sinistra” non è un valore aggiunto, se non contribuisce ad allargare il campo dei consensi, ad attirare più elettori, non vedo nulla di male a preferirgli una diversa etichetta. Democratici va ugualmente bene, visto che a parlare, a rivelare l’identità di una persona, contano in primo luogo i fatti, ovvero come questa agisce (perché poi anche cosa ci sta dietro l’etichetta “sinistra” non è chiaro – etichetta che poi dovremmo condividere con altri partiti e che dunque, affinché sia identificante, dovremmo andare a specificare: es. sinistra liberale, sinistra di governo, ecc.). D’altro canto, se guardiamo al campo avversario, penso che sia difficile pensare che il successo di Berlusconi dipenda dalle etichette politiche che si è dato. Per questo mi sembra che la rivendicazione dell’uso della parola “sinistra” abbia, in Bersani, soprattutto un valore simbolico: quello di scaldare il cuore ad una parte di militanti, iscritti, elettori. Di certo non ci risolve alcuno dei problemi, delle sfide che abbiamo di fronte. Tra l’altro abbiamo anche risolto positivamente la vicenda della collocazione nel parlamento europeo con l’allargamento del gruppo socialista e la costituzione dell’Alleanza Socialisti e Democratici Europei (ASDE). Dunque, guardiamo avanti cercando di allargare il bacino elettorale, piuttosto che preoccupandoci di etichettare i confini della nostra posizione politica.

Ignazio Marino, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

Ignazio Marino, candidato alla segreteria nazionale del PD alle "primarie" del 25 ottobre 2009

[3] L’altro tema su cui si registrano proposte differenti riguarda l’organizzazione del partito ed in particolare la distribuzione del “potere” tra iscritti ed elettori. Debbo dire che sia la mozione di Bersani che quella di Franceschini non entrano troppo nel dettaglio (la mozione di Marino non affronta il tema dell’organizzazione del partito, privilegiando il tema del programma). Manca in effetti un’analisi sistematica del periodo della segreteria di Veltroni che evidenzi in modo chiaro che cosa non è andato e dunque prefiguri un modello diverso. Nel documento di Bersani vi sono quattro passaggi in cui si evoca (ma non si svolge pienamente) una critica a questa prima fase del partito. Vediamoli. (1) nuovismo politico: “la vocazione maggioritaria si è ridotta alla scorciatoia del nuovismo politico” (p.1); (2) deficit di identità: “si è preferita spesso la suggestione mediatica alla definizione di una riconoscibile identità politica” (p.1) ed anche: “nell’avvio del PD si è pensato che l’eclettismo potesse allargare gli orizzonti e accrescere i consensi” (p.10); (3) deficit di partito: “la questione che ci siamo posti nei mesi scorsi non è se essere un partito “vecchio” o un partito “nuovo”, ma se essere davvero un partito: cioè una libera associazione di cittadini dotata di identità riconoscibile, organizzazione interna, radicamento sociale, luoghi di discussione e partecipazione, nonché di regole liberamente accettate e condivise.” L’impressione è che queste osservazioni critiche potessero essere pertinenti per la conduzione di Veltroni, ma non lo siano più per quella di Franceschini che all’atto del suo insediamento ha introdotto importanti correttivi (vedi). Non è un caso che contro il “nuovismo scelto dall’alto” si esprima pure la mozione di Franceschini (vedi p.37). (4) Legato al terzo aspetto sta il quarto tema: la ripartizione del “potere” tra iscritti ed elettori – tema evidente quando si tratta di scegliere i candidati alle cariche istituzionali (con le primarie) od i dirigenti del partito. Nella mozione Bersani sta scritto: “Il PD coinvolge gli elettori, attraverso le primarie, per selezionare le candidature alle cariche elettive con particolare riferimento alle elezioni in cui non sia presente il voto di preferenza. Partecipa alle primarie di coalizione con un proprio rappresentante scelto da iscritti e organismi dirigenti.” (p.12) In una intervista a l’Unità del 12 luglio 2009 Bersani è più esplicito: “Quanto ai candidati sindaci o presidenti di Regioni e Province, le primarie devono essere di coalizione”. Ed alla domanda del giornalista che gli chiede: “E il PD come lo sceglie il suo candidato?” Bersani risponde: “Con una decisione degli iscritti e degli organismi, che non esclude una consultazione degli elettori, ma la affida a una decisione del partito” (vedi). Dunque un unico candidato del PD, scelto in primo luogo dalla segreteria e dagli iscritti, che partecipa a primarie di coalizione dove compete con candidati di altri partiti. Ma questa soluzione riconsegna ai vecchi meccanismi, tutt’altro che soddisfacenti, la scelta dei candidati del PD! Ora, a me è chiarissima una cosa: indubbiamente l’applicazione delle primarie ha evidenziato limiti ed è opportuno correggerne alcuni aspetti “applicativi” (ne ho trattato in diversi post: vedi). Ma io non vorrei che il PD rinunciasse a questo elemento di mobilitazione degli elettori ed anche di competizione interna al partito. Questa competizione la ritengo decisamente salutare. Per intenderci: ritengo positiva l’esperienza di Matteo Renzi che, a Firenze, vince da outsider (contro le indicazioni dei vertici del partito) le primarie per la scelta del candidato a sindaco (e dopo vince le elezioni). Il problema è che in troppi casi le primarie sono state usate come un mezzo per proseguire, con modalità diverse, la vecchia prassi della cooptazione! Primarie vere: se si fanno debbono essere così (ma anche efficaci, ovviamente: vedi). Su questo aspetto si coglie più apertura nel documento di Franceschini: “Mettiamo un po’ d’ordine nelle regole, ma non rinunciamo alla scelta che abbiamo fatto alla nascita del PD, di affidare agli iscritti le scelte del partito e l’elezione degli organi territoriali, affiancando a loro gli elettori, da chiamare nei momenti delle grandi scelte, com’è certamente l’elezione di un segretario nazionale. Non alziamo barriere. Gli elettori del PD non sono estranei, sono parte di noi. Sono quelli che arrivano nelle grandi mobilitazioni civili, che ci sostengono nelle campagne elettorali, che riempiono le piazze e i comitati.” Il tema, inoltre, è trattato con chiarezza da Piero Fassino, coordinatore nazionale della mozione Franceschini, su l’Unità di oggi, 22 settembre (vedi). Su questi aspetti vedi anche le osservazioni di Salvatore Vassallo, dal suo blog (vedi).
[4] Per concludere. Dunque, essenzialmente per queste tre ragioni e pur nutrendo una grandissima stima per Pierluigi Bersani sono giunto alla conclusione di preferire la prospettiva che Dario Franceschini offre al PD. Ricordiamo che si tratta di scegliere una linea politica, certo incarnata nella persona del segretario nazionale del PD, ma pur sempre un’idea dell’orientamento di questo partito. Bersani abdica con eccessiva arrendevolezza la “vocazione maggioritaria” del PD, ovvero l’impegno ad un rinnovamento del PD forte in misura tale da puntare ad una importante crescita dei consensi elettorali; traccia un confine securizzante (forse per la maggior parte del PD, ma non per tutto il partito – e noi vogliamo allargarne la base elettorale!) cercando di recuperare la parola “sinistra”; sembra guardare un po’ troppo al passato per cercare il modello di riferimento per l’organizzazione del partito.

PS Di grande interesse per la discussione congressuale sono anche altre considerazioni. Enrico Morando, ad esempio, invita ad interrogarsi sul “perché Berlusconi vince” prima che su quali alleanze privilegiare, su Il Riformista del 23 agosto (vedi). E’ utile anche confrontarsi con la critica (che non si preoccupa di essere benevola) di Angelo Panebianco al profilo politico-programmatico del PD. Secondo Panebianco per ottenere un maggiore appeal elettorale il PD dovrebbe innovare maggiormente il proprio programma, ad esempio rispondendo in modo più puntuale alle preoccupazioni di numerosi cittadini su immigrazione clandestina e su immigrazione islamica (Corriere della Sera del 10 settembre: vedi). Infine Roberto D’Alimonte evidenzia i limiti del consenso elettorale del PD, particolarmente fragile nel Nord e meno “interclassista” di quello del PdL, proponendo di nuovo il tema della strategia, anche programmatica, per sfondare i rigidi confini del PD al Nord (Il Sole 24 Ore del 25 agosto: vedi).

PPS Considerazioni abbastanza simili a quelle che ho svolto in questo post sono contenute anche nell’articolo di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della sera dell’1 ottobre 2009 (vedi) e nell’articolo di Giorgio Merlo su Europa, sempre dell’1 ottobre 2009 (vedi). E Piero Fassino (portavoce della mozione Franceschini) ricorda sul Corriere della Sera del 30 settembre, certo con molta cautela, che non basta evocare la parola “sinistra”, specie se si vuole tener fede al progetto originario di unire il “riformismo italiano” nelle sue diverse componenti, alcune delle quali hanno una storia esterna alla sinistra (vedi).

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