La querelle sindaci-partito nel PD: un affare estivo?

Se quest’estate non avete rinunciato, pur trovandovi sotto l’ombrellone, a dare un’occhiata, anche fugace, alle pagine di politica dei quotidiani, avrete certamente notato diversi articoli che parlavano delle tensioni o dei conflitti sorti tra amministratori (sindaci e “governatori”) e dirigenti di partito. Il partito è ovviamente il Partito Democratico, da cui provengono i sindaci e, ovviamente, gli esponenti politici impegnati nelle contese. I casi più eclatanti sono stati quelli di Torino, con il sindaco Sergio Chiamparino contrapposto al segretario regionale Morgando e ad altri (situazione che ha visto anche l’intervento di Walter Veltroni e Piero Fassino), e quello della Sardegna, con il governatore Renato Soru contrapposto ad altri importanti esponenti del partito, con anche un congresso in cui l’elezione del segretario regionale è stata contestata fino a rivolgersi al magistrato. Questi però sono solo i casi più eclatanti, mentre polemiche forse non meno accese, ma certamente meno “notiziabili” (per il coinvolgimento di personaggi meno famosi), si sono registrate in diverse città. Anche a Bologna, Sergio Cofferati, personaggio di indubbia intelligenza politica, ha da tempo messo “in tensione”, con il suo stile notoriamente autoritario, il PD bolognese. E sentendosi direttamente coinvolto nella querelle generale è anch’egli intervenuto sulla stampa rilasciando un’intervista (io ho sotto mano quella rilasciata a l’Unità il 28 agosto; vedi). Prima di proseguire nella lettura vi propongo però un doveroso test: “a pelle” da che parte state? La simpatia di ogni lettore (estraneo alle vicende) va “naturalmente” ai sindaci (od ai governatori, ovvero alla categoria degli “amministratori”). Personaggi popolari (sono stati eletti dai cittadini) le cui azioni sono riprese dai mass media quotidianamente per quello che fanno per la loro città o per la loro regione. Di molto meno “prestigio” godono coloro che ricoprono ruoli all’interno di un partito, specie se non hanno nel loro curriculum esperienze amministrative e di governo. Questo naturale “pregiudizio” a favore degli “amministratori” è inoltre spesso amplificato dai quotidiani. Esemplare è il titolo adottato da La Stampa il 20 agosto 2008: “Sindaci e burocrati è guerra nel PD”. Se però si adotta questa visione, possiamo subito dire che “non c’è partita”. Se adottiamo sin dall’inizio lo schema interpretativo per cui da un lato stanno i sindaci (gli amministratori) buoni e dall’altro i “funzionari” di partito od i “burocrati” cattivi, non comprendiamo una cosa importante. Che è questa: gli episodi finiti sulla stampa (ed i mille altri episodi “minori” che invece non hanno avuto l’onore della cronaca) sono la manifestazione di una tensione strutturale (cioè non casuale, non occasionale) conseguente della presenza di sindaci forti (in virtù dell’elezione diretta introdotta con la riforma elettorale delle amministrative nel 1993) e di partiti, spesso assai fragili ed anche incapaci di svolgere le loro “vere” funzioni; una tensione che si manifesta soprattutto nel PD, essendo questo un partito nuovo, oggi più “plurale” che in passato, e che cerca di intendere in modo nuovo il proprio ruolo (come risulta chiaro sia dallo Statuto nazionale che da quello regionale). Vi prego di non intendere queste mie parole come se fossi schierato con l’altro campo (quello dei “burocrati”). Non è così. Anche Giorgio Merlo su Europa del 20 agosto ci avverte di non commettere l’errore di leggere la vicenda torinese come se fosse un semplice gioco di potere (vedi). Sospendiamo dunque, per un attimo, il favore con cui guardiamo ad una delle parti in causa (Chiamparino & C.) e proviamo a capire qual è l’oggetto del contendere. Questa premessa è solo per invitare tutti gli osservatori a leggere questi fenomeni “conflittuali” non in termini di contrapposizioni personali e neppure esclusivamente come un tentativo degli uomini di partito di “controllare” o “manovrare” le decisioni degli amministratori (come invece risulta dal trattamento asimmetrico che episodi del genere ricevono sui mass media), bensì, appunto, come una conseguenza di una “tensione” presente pressocché ovunque, ma che in alcune realtà, per ragioni “contingenti”, vengono alla luce. Debbo anche dire che non conosco in modo sufficientemente preciso né la situazione di Torino, né la situazione sarda per prendere posizione rispetto alle diverse parti in campo. Conosco però bene, essendo stato sia assessore che (oggi) consigliere comunale, la realtà di Vignola, per poter dire che gli stessi “nodi” sono presenti – e non da oggi – anche a Vignola. Insomma il PD, specie in questa fase iniziale della sua vita, è alla ricerca di una soluzione equilibrata e soddisfacente circa i rapporti tra amministrazione e partito. Una soluzione che non lasci al partito solo il ruolo di “cartello elettorale” (un partito che opera solo in campagna elettorale quando mobilita i cittadini per eleggere i propri candidati), ma neppure una soluzione che consente, come troppo spesso avvenuto in passato, quelle invasioni di campo da parte del partito nei confronti dell’amministrazione (es. specialmente con la richiesta di nomina di personale politico nei posti “istituzionali” o nel sistema della holding comunale, provinciale o regionale). Vediamo dunque di approfondire. In una intervista a La Stampa del 20 agosto, Renato Soru (imprenditore “prestato” alla politica) afferma: “Io dico che il partito deve formare, selezionare le idee e la classe dirigente, decidere chi candida alle elezioni e fare tutto quanto può per farlo eleggere. Poi però deve fare un passo indietro, non impicciarsi della gestione della cosa pubblica. Io non intendo mediare con i partiti – neanche col mio – le nomine dei direttori delle ASL o dell’Ente che distribuisce l’acqua in Sardegna. Deve decidere la giunta che è stata eletta dai cittadini, e deve decidere seguendo criteri di capacità, efficienza, competenza. Certo non quelli dell’appartenenza a un partito o addirittura a una corrente” (per il testo dell’intera intervista vedi). Su l’Unità del 31 agosto Sergio Chiamparino, a sua volta, dice cose abbastanza simili a quelle di Soru, collegando in modo chiaro le tensioni emergenti all’elezione diretta dei sindaci (intervenuta, per l’appunto, dal 1993) (vedi). Chiede, ad esempio, che i partiti mettano in campo un impegno forte “per riposizionare” il loro ruolo “nella direzione della rappresentanza di interessi e di valori e non della sostituzione dei partiti alle istituzioni”. Ed ancora: “Il limite che avverto è esattamente quello di un partito che non è in grado di calarsi sufficientemente nei cambiamenti della società, in modo da riuscire a interpretarli. I partiti devono ricominciare da lì e attraverso l’immersione tra la gente devono saper produrre differenza di opinioni, di orientamento, di progettualità.” Che dire? Il punto di vista degli “amministratori” è assolutamente convincente. Forse però incompleto. Provo a spiegarmi e lo faccio esplicitando alcuni punti di una questione indubbiamente più complessa.
[1] Quando un amministratore viene eletto, con il concorso decisivo di uno o più partiti, “porta con sé” un programma. Un programma che le forze politiche hanno messo a punto (certo, anche con il contributo dei candidati) e che è stato presentato agli elettori. Se noi pensassimo che una volta eletto il sindaco od il governatore il “programma” viene consegnato alle istituzioni ed i partiti si interessano d’altro (e di cosa?) perderemmo di vista un aspetto essenziale della politica. Sia perché ci dovrà pur essere qualcuno che “misura” la realizzazione del programma. Ci dovrà essere qualcuno a cui l’amministrazione “rendiconta” in che misura sta effettivamente realizzando le cose prospettate in occasione delle elezioni. Sia perché un programma ha necessariamente bisogno di essere “manutenuto”, a volte “aggiornato”, in alcuni casi “rivisto”, ad esempio perché alcuni obiettivi risultano non realizzabili, perché le risorse insufficienti impongono delle scelte, la definizione di priorità, o semplicemente perché le esperienze fatte (a volte vere e proprie “sperimentazioni”) chiariscono che i mezzi che si riteneva appropriati non lo sono. Insomma, se da un lato il programma elettorale è il punto di riferimento necessario del lavoro delle amministrazioni, dall’altro lato quello stesso programma ha in genere bisogno di “revisioni” (non certo di stravolgimenti, pena la perdita di credibilità di amministrazioni e forze politiche). Questo lavoro di verifica e “manutenzione” del programma richiede necessariamente che venga mantenuto attivo il circuito di comunicazione tra istituzioni, partiti, cittadini. Un amministratore, sindaco o governatore che sia, ha dunque necessità di contribuire a mantenere fluido questo processo e mantenere “permeabile” l’istituzione che presiede a nuovi temi, nuove soluzioni, nuove decisioni. In questo modo viene definito un ruolo per i partiti: quello di essere “sensori” della società e di essere luoghi di elaborazione (e rielaborazione) di scenari, di obiettivi, di “sapere”. Che è poi quello che richiedono gli stessi amministratori come Chiamparino, Soru, Cofferati. Per diverse ragioni spesso oggi i partiti – ed anche il PD – risultano indeboliti in questa funzione di raccolta di istanze, “mediazione” tra interessi ed ideali, elaborazione di proposte politiche e di “indirizzi” per l’amministrazione. Ed è una debolezza che si manifesta su entrambe i fronti dell’azione di un partito: il rapporto con l’amministrazione (diretto oppure mediato dal gruppo consiliare), il rapporto con i cittadini.
[2] Se vogliamo davvero rafforzare questa capacità di “elaborazione” e di “interlocuzione” abbiamo bisogno di alcune cose ad oggi mancanti. Ne cito una: una rendicontazione vera da parte delle amministrazioni. Se questo compito deve essere preso sul serio occorre che le istituzioni, le amministrazioni, si dotino di strumenti avanzati di rendicontazione. Ovvero di strumenti che rendano conto, alle forze politiche ed ai cittadini tutti, in che misura stanno realizzando il programma, come un territorio od una dotazione di servizi si posiziona rispetto ad altri territori o ad altre amministrazioni (benchmarking), quali avanzamenti di posizione (o arretramenti) sono intervenuti nelle graduatorie provinciali, regionali o nazionali su aspetti essenziali della qualità della vita, della dotazione di servizi, ecc. E’ solo sulla base di tali informazioni che la politica, i partiti, i cittadini possono davvero elaborare giudizi e fornire input all’amministrazione che alzi la qualità rispetto alle “chiacchiere da bar”. Bisogna allora riconoscere onestamente che ad oggi, alle amministrazioni, mancano in genere strumenti di questo tipo (e spesso non c’è gran spinta per dotarsene). Il bilancio di missione come strumento né rituale, né di puro marketing per “misurare” il grado di raggiungimento degli obiettivi (del programma). Documenti user-friendly che accompagnino le sessioni di bilancio delle amministrazioni (e magari assemblee di quartiere periodiche). Un sito web che presenti il piano degli investimenti e le sue realizzazioni (oltre, ovviamente, ad illustrare lo scenario che si persegue, quella “città futura” senza la di cui consapevolezza i cittadini percepiscono solo i disagi da patire nel presente).
[3] Condivido in pieno la richiesta netta, esplicita di Soru relativamente alle nomine. Penso che da tempo sia sotto gli occhi di tutti che quando i partiti intervengono su nomine di spettanza delle istituzioni, in genere non innalzano la qualità della scelta. Anzi. Diciamolo dunque. Queste scelte spettano agli amministratori. Vanno fatte in un quadro condiviso con i partiti per quanto riguarda “il mandato” (se la missione è “più efficienza” le persone scelte dovranno essere coerenti con questa mission; se il tema è “più trasparenza, rapporti più user-friendly con gli utenti” le competenze dovranno essere diverse; se il mandato è “innovazione di prodotto” le competenze che servono sono diverse ancora). Ma poi è bene che decidano i sindaci, i governatori, ecc., ovviamente secondo le competenze fissate dalla legge e secondo rigorosi criteri, pubblicamente verificabili, di competenza (come, tra l’altro, richiede anche lo statuto del PD! Vedi l’art. 23 dello Statuto nazionale). Proprio in questi giorni Valter Veltroni ha annunciato un disegno di legge del PD affinché la politica non entri nelle nomine dei manager delle ASL e della RAI. Di questo ha un gran bisogno questo paese. Però, anche qui, abbiamo bisogno di ridisegnare i meccanismi di rendicontazione, di governance, di responsabilità. Ci deve essere un mandato chiaro, espresso in termini “misurabili”, per ogni manager, per ogni CdA di enti pubblici. Ci deve essere un sistema chiaro e trasparente di rendicontazione. Ci deve essere un sistema trasparente di assunzione di responsabilità. Se dopo aver nominato un “manager” quello fa disastri (o semplicemente non raggiunge gli obiettivi assegnati) e non viene tolto subito, la catena delle responsabilità deve arrivare a toccare chi ha effettuato la nomina. Questa è la discussione che si deve aprire all’interno dei partiti. Questa è la discussione che si è aperta sin dall’inizio – grazie soprattutto a Valter Veltroni, questo gli va riconosciuto – all’interno del PD. Ma che ora deve essere ripresa, sviluppata e deve portare a conclusioni solide (ed a prassi conseguenti) in ogni realtà locale.
[4] Bisogna, infine, che il partito (io sono ovviamente preoccupato innanzitutto per il Partito Democratico) non deleghi al sindaco compiti che spettano invece ai suoi organi dirigenti ed ai suoi eletti. Per fare un esempio comprensibile a tutti. Qualche sindaco si ritiene investito del compito di “selezionare” il suo successore – un compito che invece va gestito per intero sul fronte dei partiti, non su quello delle istituzioni. Oggi il PD ha fatto la scelta chiara delle primarie. Ma è chiaro che, in qualche realtà, il lavoro vero, di “preparazione” avviene molto prima. C’è un percorso di formazione e selezione dei potenziali candidati, specie quando operano all’interno dell’amministrazione (es. come assessori o consiglieri), che non può essere appaltato neppure al sindaco dotato delle migliori intenzioni, perché rischierebbe di configurare un meccanismo fattuale di cooptazione. In ogni caso è il partito che in tali situazioni deve “schermare” il processo di selezione dei candidati dalle possibili interferenze del sindaco in carica.
In conclusione, bisogna lavorare affinché il PD affronti seriamente i “nodi” di un rinnovato rapporto partito-amministrazione, piuttosto che alimentare gli schieramenti dei “tifosi” a sostegno dell’una o dell’altra parte in causa. Solo se facciamo questo possiamo ragionevolmente pensare che la querelle “sindaci-burocrati” (per rimanere al titolo “militante” de La Stampa) dell’estate 2008 produca sviluppi positivi tanto per le amministrazioni, quanto per il PD.

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