I cattolici, il Partito Democratico, l’idea di laicità. Un ragionamento in due mosse

Un partito che include la Bonino e Oddifreddi, da un lato, la Binetti e Bobba dall’altro? Può funzionare? E’ solo una tattica elettorale – quella del partito “pigliatutto” (non è una frase da bar, è una categoria politologica) adattato alla realtà italiana? O c’è invece una visione strategica sull’articolazione del quadro politico e, conseguentemente, anche sul ruolo che le persone con convinzioni religiose possono giocare all’interno di un partito grande (“a vocazione maggioritaria”)? Anche su questo impegnativo tema è stato il Partito Democratico di Walter Veltroni non solo a dare il la alla campagna elettorale, ma anzi ad innescare la ristrutturazione dell’offerta politica. Con la coraggiosa decisione di “correre da soli” Veltroni ha prodotto diversi effetti sul quadro politico, tra cui la decisione dell’UDC di sganciarsi da Berlusconi e di presentarsi come partito “identitario” che si presenta come partito di “ispirazione cristiana” (uno degli slogan usati dall’UDC in questa campagna elettorale è infatti “Forti della nostra identità”). Il PD, invece, ha cercato di dare un messaggio diverso: siamo un partito in cui possono convivere “sensibilità” diverse, senza che nessuna di queste debba sentirsi marginale ovvero ininfluente nel determinare l’orientamento di tutto il partito. Attenzione però. Questa di Veltroni non è una decisione dell’ultima ora. E’ invece una decisione che viene da lontano, dall’idea stessa di PD – almeno così come l’ha prefigurata Michele Salvati e come è stata fatta propria dalle segreterie dei due partiti: DS e Margherita. Ne Il Partito democratico. Alle origini di un’idea politica, raccolta di saggi pubblicata nel 2003 da Michele Salvati (vedi), il ragionamento è illustrato con grande chiarezza: in diversi paesi europei vi sono grandi partiti che si collocano nell’area di centrosinistra in cui l’ingrediente religioso è completamente fuso. Per ragioni storiche in Italia non è così, ma quelle ragioni oggi non hanno più ragione d’essere (il bisticcio è voluto). La missione del PD diviene dunque quella di superare questa anomalia italiana attraverso un’operazione “anomala”: la fusione della componente “popolare” e della componente “socialdemocratica” (ho lasciato alcuni dei termini usati da Salvati; chi volesse recuperare per intero il suo ragionamento potrebbe leggere, ad esempio, le 8 pagine del capitolo 10 del libro del 2003). La visione strategica del PD è quella di superare il cleavage (cioè la “frattura”) che ha segnato la storia italiana del dopoguerra: la frattura tra un partito di ispirazione cattolica ed un partito di sinistra. Le dichiarazioni ed i comportamenti di oggi hanno le loro radici in quell’analisi ed in quella visione strategica, come ha detto con grande chiarezza Veltroni nel suo discorso al convegno dei cattolici del PD del 27 febbraio 2008 (vedi): l’Italia rischiava di essere l’unico caso in Europa – dove tutti i partiti a vocazione maggioritaria (dunque grandi) sono “misti” (con componenti di ispirazione religiosa e no) – a mantenere questa frattura. Il PD ha invece come missione quella di “superare la contrapposizione secca che divide … per arrivare a una reciproca considerazione.” Il Partito Democratico è infatti “nato per unire il Paese, per abbattere muri e steccati, per aprire porte e costruire ponti”. E in un’intervista a Repubblica del 10 marzo 2008 Veltroni afferma di nuovo: “considero del tutto naturale che persone che hanno un punto di vista religioso possano animare la vita pubblica e politica con le loro idee. Diffido, combatto e contrasto con tutte le mie forze l’idea che la società moderna possa avere tra i tanti elementi di divisione e contrapposizione anche quelli tra laici e cattolici perché altrimenti dovremmo pensare di avere un partito laico e un partito cattolico, che è esattamente il contrario delle ragioni per cui è nato il Partito democratico.”
Torniamo allora al quesito che questa visione strategica suscita: può funzionare? Prima di rispondere abbiamo il dovere di dire cosa intendiamo per “funzionare”. Io vedo due dimensioni. (1) La prima è legata ai “meccanismi” della democrazia interna che devono consentire che anche un’idea della minoranza possa diventare idea di tutto il partito (detto in due parole: occorre che la dialettica interna al partito possa assomigliare ad un processo di apprendimento – dove entrambe le parti apprendono e dunque arricchiscono la propria posizione – non ad un “muro contro muro”). Questo implica anche, ovviamente, che allorquando un’idea minoritaria non abbia ragioni riconosciute come abbastanza solide per diventare l’orientamento di tutto il partito, ciò possa avvenire senza che chi la propone si senta messo ai margini. Anche Luigi Bobba ne Il posto dei cattolici (vedi) riconosce che l’impegno dei cattolici in politica è “una presenza che non nasconde la sorgente da cui attinge, ma che è pienamente consapevole che i valori cristiani non si possono né brandire, né imporre, ma solo proporre secondo il metodo della ragionevolezza civica, ovvero argomentando e convincendo gli altri della bontà della scelta.” (p.119) (2) La seconda è legata alla capacità di far riconoscere (ed apprezzare) questa novità ai cittadini di questo paese, ovvero all’elettorato (innanzitutto quello cattolico). Bisogna dire, da questo punto di vista, che la prova elettorale del 13 e 14 aprile costituisce già un buon test (anche se solo un “primo” test) rispetto al riconoscimento (ed all’apprezzamento), da parte dell’elettorato, di questa nuova posizione che il PD esprime.

Mossa 2. Il PD e l’idea di laicità
Non ce la possiamo però cavare così. Se il PD vuole essere credibile in questa nuova offerta politica deve dimostrare che questa può funzionare, innanzitutto sul piano dei processi interni di formazione della volontà (la democrazia interna). Deve dimostrare che certe affermazioni impegnative – “Sento il fascino, non la paura, di un confronto vero e profondo tra cattolici e laici, radicali compresi” (Dario Franceschini, La Repubblica, 26 febbraio 2008), – non sono solo retorica. La posta in gioco ha qui un nome molto preciso: si tratta dell’idea di laicità. Vorremmo, in proposito, che il tema fosse trattato con grande chiarezza nel Manifesto dei Valori del Partito Democratico (vedi), che però risulta un po’ parco (e riprende il larga misura il Manifesto per il Partito Democratico scritto dai dodici “saggi” nel febbraio 2007). Qui si dice: “concepiamo la laicità non come il luogo di una presunta neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali, e quindi anche come riconoscimento della rilevanza, nella sfera pubblica e non solo privata, delle religioni”. Il nucleo sta dunque in questo passaggio: laicità come “rispetto e valorizzazione del pluralismo …”. Rispetto del pluralismo ovvero riconoscimento dei diritti “civili” di libertà di pensiero, di opinione, di religione. Ma valorizzazione, cosa significa? Lo si dice poco dopo: “la laicità è la condizione perché culture … diverse non solo convivano, ma si ascoltino, così da produrre nuove visioni e nuove sintesi …” Più chiare sono le parole di Veltroni. Seguiamolo passo dopo passo. “La laicità si difende e si afferma rilanciando il ruolo della politica, che tutti deve ascoltare, da tutti deve raccogliere, per poi esercitare in prima persona il proprio inderogabile dovere di sintesi. E di responsabile decisione.” La laicità, secondo questa visione, oltre ad essere riconoscimento di diritti (e dunque accettazione del pluralismo) è anche qualcosa che attiene al modo in cui vengono prese le decisioni. Ma come si fa a passare dalla pluralità delle culture all’unità della decisione? Ecco indicata la via: dopo aver ribadito che non è pensabile la richiesta di “lasciare fuori dalla porta la religione prima di entrare nell’agone politico” Veltroni precisa che “alle persone motivate dalla fede, una democrazia pluralista chiede di tradurre le proprie preoccupazioni in valori universali piuttosto che esclusivamente religiosi, e in proposte sottoposte alla discussione, aperte alla ragione.” Da dove origina questa posizione? Per chi ha un po’ di dimestichezza con il dibattito della filosofia politica contemporanea non è difficile rispondere. Il punto di riferimento sta nel pensiero politico liberale, così come interpretato, pur con sensibilità diverse, da John Rawls e Jürgen Habermas. Habermas, in particolare, concede “di più” al punto di vista religioso (se poi questo “di più” sia per tutti abbastanza è un’altra questione), poiché distingue due piani: quello della sfera pubblica e quello delle istituzioni. Nella “sfera pubblica” ovvero nella comunicazione sui mass media, nella comunicazione dei movimenti sociali, delle realtà associative, delle forze sociali, dei cittadini singoli, “la comunicazione politica dovrebbe rimanere aperta a ogni contributo … anche espresso in linguaggio religioso”. Nella sfera pubblica, cioè, è importante salvaguardare “la complessità polifonica delle molte voci che intervengono nel dibattito pubblico”. Ed anzi (e qui Habermas concede più di Rawls) “una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti.” (Ragione e fede in dialogo, Marsilio, 2005, pp.62-63; vedi) Proviamo a renderlo in modo più comprensibile: è quello che è avvenuto quando, con l’età moderna, la visione religiosa del “siamo tutti figli di Dio” (e dunque abbiamo pari dignità) è stata tradotta nell’idea (laica) di uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini – e così via. Questo significa non escludere a priori che da una visione religiosa del mondo anche l’uomo secolarizzato possa apprendere qualcosa. Dunque, mentre nella “sfera pubblica” (i “luoghi” di formazione dell’opinione pubblica) deve essere salvaguardata la pluralità dei linguaggi (la “polifonia” delle voci), nelle istituzioni (e questo è il secondo, distinto piano) le diverse voci, le diverse posizioni debbono esprimere argomenti basati su ragioni potenzialmente accessibili a tutti, ovvero indipendenti da una (particolare) fede religiosa. E’ pertanto fondamentale il gioco cooperativo, tra laici e credenti, per cercare di tradurre temi e linguaggi religiosi in discorsi “laici”. E’ questo il retroterra dell’affermazione di Veltroni: “alle persone motivate dalla fede, una democrazia pluralista chiede di tradurre le proprie preoccupazioni in valori universali piuttosto che esclusivamente religiosi, e in proposte sottoposte alla discussione, aperte alla ragione.” Ed è questa prospettiva di filosofia politica – questa idea di laicità – che guida il PD. E’ convincente? A voi la parola.

Habermas, Salvati, Binetti, Veltroni

Per chi vuole cimentarsi con Habermas segnalo innanzitutto questo breve intervento (una replica a Flores d’Arcais) apparso su Repubblica del 30 novembre 2007 (vedi). Poi il libretto che riporta il suo intervento (assieme all’allora cardinale Joseph Ratzinger) all’Accademia cattolica di Monaco di Baviera nel gennaio 2004, sempre sul tema (vedi). E soprattutto il libro Tra scienza e fede, Laterza, Bari, 2006, (vedi), di cui è accessibile la premessa (pubblicata su Repubblica del 18 ottobre 2006; vedi). Segnalo anche un interessante intervento pubblicato su Il Sole 24 ore del 18 febbraio 2007 (vedi). Online è infine disponibile il video del suo intervento al congresso della Società Italiana di Filosofia Politica tenuto a Roma il 13 settembre 2007 (indovinate chi c’era a portare i saluti in qualità di primo cittadino? Walter Veltroni) (vedi).

One Response to I cattolici, il Partito Democratico, l’idea di laicità. Un ragionamento in due mosse

  1. Andrea Paltrinieri ha detto:

    Solo dopo aver scritto questo post ho potuto leggere il saggio di Michele Salvati su Il Mulino, n.1, 2008, pp.76-83 (saggio dal titolo “Un partito a vocazione maggioritaria”). Salvati dice che sulla “questione della laicità” è necessaria una grande chiarezza. Però … Facciamo parlare Salvati: “Questa chiarezza non la trovo nella bozza del Manifesto. La politica liberale e democratica vive molto male contrapposizioni non negoziabili, intransigenti. La demarcazione tra politica e credenze assolute – tipiche delle religioni, ma non solo di esse – richiede una ‘accettazione dell’aperto, pragmatico, contingente, incerto, tollerante carattere di ogni argomentazione … sul lato politico della linea di demarcazione’ (M.Walzer). Questo non implica che i partecipanti al confronto politico smettano di credere al valore assoluto delle posizioni che difendono o smettano di difenderle e propagandarle con passione: tutto ciò sta perfettamente dentro la democrazia, e può stare dentro uno stesso partito. Implica però che essi siano disposti ad accettare compromessi, vittorie e sconfitte parziali, per consentire un buon funzionamento del processo democratico. Per un partito che aspira a creare una identità politica comune tra i suoi aderenti religiosi e non religiosi – come avviene nei grandi partiti ai quali cerca di assomigliare; per un partito che nasce negando che la fede religiosa, o la sua assenza, costituiscano un discrimine politico, che esige la costruzione di due diversi partiti … per questo partito una posizione approfondita e condivisa sul problema della laicità è essenziale. E non è ancora pienamente acquisita.” (pp.81-82)

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